3. Uno spettro di capitani

  1. Il migrante-capitano forzato
  2. Il migrante-capitano di necessità
  3. Il migrante-capitano retribuito
  4. Il capitano dell’organizzazione
  5. Casi ‘misti’
  6. Il concetto di ‘difendibilità’

Negli ultimi anni, il cosiddetto ‘scafista’ è diventato una figura centrale nelle discussioni sulla migrazione in Italia, regolarmente usato come capro espiatorio per le morti e i disastri causati dalla politica europea di chiusura dei confini. Eppure, anche nei periodi in cui ci sono stati articoli quotidiani nei notiziari sul loro arresto, sono state pochissime le analisi e le discussioni sulle diverse ragioni che portano le persone a guidare le barche, o sui loro ruoli specifici all’interno delle organizzazioni del traffico.

In questo capitolo ci proponiamo di descrivere i modi molto diversi con cui le persone arrivano a guidare le barche di migranti, al fine di contribuire a un dibattito onesto e chiaro in cui i protagonisti non siano ridotti a vittime indifese o assassini senza cuore, ma siano resi come individui complessi e diversificati.

Come già sottolineato nell’introduzione, la nostra ferma convinzione è che l’atto di guidare una barca e di trasportare migranti non dovrebbe essere di per sé un crimine. Le ragioni dietro la decisione di qualcuno di guidare una barca – che sia per il proprio progetto migratorio, o sotto minaccia di violenza, o per incentivi monetari – non modifica questa posizione. L’analisi fornita qui, invece, mira a fornire ai professionisti del settore, agli attivisti e al pubblico in generale una migliore comprensione di chi guida le barche e della loro posizione nelle reti del traffico, al fine di aiutare a separare l’atto del trasporto fisico dei migranti da altre attività.

Al fine di concettualizzare le diverse ragioni che determinano le decisioni dei capitani e il loro posizionamento dal punto di vista dell’organizzazione, immaginiamo innanzitutto uno ‘spettro’, che va dalle persone che sembrano avere meno scelta sulla loro decisione di guidare la barca (cioè le persone che sono state fisicamente costrette a farlo) fino, all’altra estremità dello spettro, alle persone che hanno guidato la barca con un guadagno economico. Queste distinzioni sono in parte basate su come le persone sono trattate dal sistema legale, ma emergono anche dalle interviste con gli stessi accusati, che spesso sottolineano tali differenze.

In questa sezione usiamo il termine ‘capitani’ per descrivere chiunque abbia fisicamente guidato, o aiutato a navigare, una barca di migranti (mentre in altre sezioni parliamo anche di persone erroneamente accusate di aver trasportato migranti). Questo “spettro di capitani” ci permette di fornire una prima tipologia, che guida il lettore nella comprensione delle diverse motivazioni coinvolte. Questo sarà anche importante più avanti nel report come base per capire meglio come funzionano le diverse rotte marittime e le strategie di difesa legale nei procedimenti penali.

Come tutte le categorizzazioni, tuttavia, pur fornendo uno strumento iniziale, lo spettro non può descrivere in modo esaustivo le situazioni che abbiamo incontrato. Per questo motivo, forniamo immediatamente esempi di ‘casi misti’ che ribaltano queste categorie e dimostrano la complessità delle motivazioni degli scafisti. Infine, esaminiamo e mettiamo in discussione il concetto di ‘difendibilità’ di questi diversi tipi di scafisti; l’obiettivo è quello di sfidare il quadro giuridico e mediatico con cui gli scafisti sono giudicati.

Un migrante gambiano spiega come era stato costretto a guidare la barca. Fonte: Francesco Bellina.

​1. Il migrante-capitano forzato

Soprattutto nelle partenze dalla Libia dal 2014 in poi, il ruolo del capitano è stato spesso svolto da persone con pochissime, o quasi inesistenti, conoscenze del mare, costrette poco dopo la partenza a guidare l’imbarcazione. Spesso questa figura viene affiancata da altri due ruoli: la c.d. “bussola”, e la persona che ha il compito di gestire il telefono satellitare (torneremo su questi ruoli nella sezione dedicata alla Libia). Il racconto di L. M., 15 anni, descrive bene la situazione:

“Prima di partire l’uomo arabo con la pistola mi ha detto che avrei dovuto tenere la bussola mentre a quello in fila dietro di me (eravamo l’ultimo ed il penultimo della fila) è stato dato il comando dell’imbarcazione, sotto minaccia di essere sparati. Solo dopo ho scoperto che quella sera per tutte e tre le barche che sono partite, gli ultimi due della fila erano stati scelti per condurre la barca. Non si può fare nulla, tutti sono armati in Libia. Non è possibile opporsi a quello che comanda.” (Intervista rilasciata nell’ambito del progetto OpernEurope)

In questi casi abbiamo riscontrato spesso non solo la minaccia di violenza, ma anche l’esercizio della violenza: i timonieri ci mostrano le cicatrici della violenza subita sulla spiaggia o sulla barca, oppure ci raccontano della violenza a cui hanno assistito quando altri passeggeri hanno rifiutato di svolgere quei ruoli (e.g., da un caso nel Tribunale di Ragusa: “In sede di interrogatorio di garanzia, l’imputato ammetteva di avere condotto la barca, ma diceva di essere stato costretto a farlo, dopo essere stato picchiato per giorni interi dai libici organizzatori”). Nell’organizzazione del “business” dell’immigrazione, si tratta di persone totalmente esterne alla rete aziendale-lavorativa, che non percepiscono nessuna remunerazione per il pericoloso compito; anzi, spesso gli imputati si lamentano che hanno pagato il prezzo del viaggio (fra 500 e 1000 dinari su per giù) come tutti gli altri passeggeri, e si sentono truffati nell’aver avuto una responsabilità così alta, con altrettanto elevate conseguenze penali che sono seguite. Va detto pure che, in una situazione di mare calmo, l’azione intrapresa può essere minima (“… e che all’arrivo dei soccorsi [l’imputato] non aveva assunto un atteggiamento particolare, limitandosi a spegnere il motore e a mettersi seduto”, come leggiamo una sentenza dal Tribunale di Palermo).

​2. Il migrante-capitano per necessità

Un ulteriore elemento che viene percepito come un’ingiustizia, invece, è legato agli episodi in cui il capitano ha dovuto gestire l’imbarcazione durante momenti di difficoltà e trauma collettivo (e.g. un attacco dei pirati che rubano il motore, onde alte, litigi a bordo), fino agli episodi in cui l’imputato, pur non essendo forzato all’inizio del viaggio, ha dovuto prendere il timone durante i momenti più difficili della traversata, motivo per il quale è poi stato fermato dopo il soccorso. Il racconto di un giovane ragazzo gambiano, arrivato in Italia pochi mesi fa, riporta un episodio simile: il capitano scelto poco prima della partenza ha preso il timone ma effettivamente non è stato in grado di condurre la barca, facendole fare nient’altro che dei giri su se stessa poco lontano dalla spiaggia; dunque un altro migrante, con più esperienza di mare, ha preso il motore ed ha effettivamente condotto l’imbarcazione.

​3. Il migrante-capitano retribuito

Nell’arco dell’ultimo decennio di migrazione dall’Africa all’Italia, si può sempre riscontrare come in alcuni casi il ruolo del capitano è svolto da persone che vengono pagate – in soldi o in natura – per guidare le barche. Queste persone, al di fuori di questo compito molto limitato, non hanno nulla a fare con l’organizzazione del viaggio o il “business” della migrazione. Il racconto di C., cittadino senegalese:

“Il cockseur mi ha detto che avrei potuto portare 2 persone in viaggio, o persone che volevo portare, o 2 persone che mi avrebbero pagato. C’era una ragazza nigeriana che era malata, e anche quattro persone che avevano un problema di soldi, ho scelto uno di loro, così potevano avere soldi per tutti quattro per partire.

““Hanno organizzato dieci barche, ho visto altri 6 dei capitani. Sono tutte arrivate. Un giorno prima della partenza, hanno messo un barile al centro del connection house, con il motore montato dentro al barile pieno di acqua. Ci hanno dato la pompa per fare riempire il motore con la benzina, e dovevamo fare accendere il motore… così vedono se sai guidare. Questo davanti a tutti i passeggeri, chi non fa una buona prova viene picchiato dai libici davanti a tutti. Quindi anche alcuni coloro che sanno guidare non volevano fare la prova perché sapevano, con tutta la pressione, magari l’avrebbero fatta male e poi sarebbero stati picchiati con un tubo… C’erano tre ragazzi che sono stati picchiati perché l’hanno fatto male. Mi hanno fatto fare la prova ed è andato bene. Siamo partiti nei gommoni direttamente dalla spiaggia, senza accompagnamento… sapevamo che c’erano tante navi vicine alla costa in quel periodo (marzo 2016) perché la situazione in Libia era molto calda. Dopo un paio di ore siamo stati soccorsi da una nave militare tedesca. Sono rimasto accanto al motore fino alla fine per tutelare la barca e essere sicuro che tutti sarebbero arrivati salvi – c’erano tante famiglie a bordo.”

I capitani retribuiti non sono necessariamente raggruppati con gli altri passeggeri ma possono essere messi da parte, separati, e raggiungono gli altri solo al momento della partenza. Si tratta di persone a cui vengono o offerti soldi per guidare, o – più frequentemente – possono avere 2 o 3 posti sulla barca da vendere. A volte sono trattati meglio degli altri passeggeri, visti come operai specializzati essenziali al lavoro dei trafficanti. Spesso partono dai paesi di origine già sapendo che possono svolgere questo ruolo, nel senso che per loro esiste la possibilità di pagare per la traversa vendendo la loro forza-lavoro direttamente per il viaggio invece che nei campi o cantieri prima.

È importante notare che ci sono sempre più candidati per questo ruolo. Nei campi in Libia, prima della partenza, ci sono momenti di prova in cui i candidati per il ruolo devono dimostrare di avere le necessarie competenze, usando il motore allestito in un barile. Spesso la prova viene effettuata davanti agli altri passeggeri, una forma di auto-controllo sulla professionalità del capitano. Infine, notiamo che tutti questi capitani sono loro stessi migranti: il loro ruolo è parte del loro stesso progetto migratorio.

​4. Il capitano dell’organizzazione

L’ultima categoria è lo scafista che è stato integrato nell’organizzazione della traversata, nel senso che non solo viene pagato per il viaggio, ma ha un interesse economico nel suo successo e in altri viaggi che verranno o sono stati organizzati dallo stesso gruppo di persone. Tipico esempio di questa categoria sono i timonieri libici che accompagnano la barca – o direttamente o in una ‘nave madre’ – fino a qualche ora (se tutto va bene) prima del soccorso. Come leggiamo in una sentenza dal Tribunale di Crotone nel 2015: “Sulla imbarcazione in legno prendevano invece posto i capitani libici i quali, dopo circa un giorno, si allontanavano dicendo loro che presto sarebbero arrivati i soccorsi.”

In questa categoria, però, dovremmo includere tutti coloro che intendono tornare al punto di partenza dopo aver ‘scaricato’ i passeggeri in Italia. Si capisce che questo è stato il tipo di ruolo svolto in particolare nei casi in cui il capitano viene arrestato durante il viaggio di ritorno, una conferma che non si tratta di un migrante che è stato costretto a guidare, oppure che ha esercitato un compito nel viaggio, ma piuttosto di una persona che svolge un lavoro di trasporto. Si tratta non solo di cittadini extracomunitari (e.g. cittadini turchi e ucraini), ma a volte anche di cittadini comunitari: si pensi ai cittadini greci arrestati. Tipico è anche il fenomeno dei pescatori tunisini che vengono arruolati nell’organizzazione dei viaggi: “Qualcuno è venuto a chiedere a mio papà [un pescatore], e lui ha detto no, poi mia famiglia ha avuto dei problemi economici, quindi ho deciso di andarci io.”

Si tratta comunque di persone che sono coinvolte a vari livelli nell’organizzazione del viaggio, dal trafficante che effettivamente ha un ruolo a lungo termine nell’organizzazione dei viaggi, al capitano che è responsabile per un viaggio solo ma guadagna bene, al giovane pescatore che viene arruolato in un gruppo e che ha poca coscienza dell’organizzazione nel suo complesso. Il parallelismo più ovvio è l’organizzazione del traffico di droga, ma si potrebbe fare un paragone ugualmente con qualsiasi settore non criminalizzato, e.g. la differenza fra un negoziante che guida una macchina, un autista degli autobus, e un tassista Uber: tutti loro fanno parte di un’organizzazione commerciale, ma in modo del tutto diverso l’uno dall’altro.

​5. I casi ‘misti’

Tra queste definizioni rientrano alcuni casi di cui siamo più abituati a parlare, e altri meno: inizia ad emergere la complessità delle situazioni organizzative della traversata mediterranea. Per riconoscere questa complessità in modo pieno, bisogna sottolineare tutta una serie di casi ‘misti’, che non si collocano facilmente in un nessuna delle categorie sopra illustrate. Diamo qualche esempio:

  • Sentenza su A., senegalese: “Come dello stesso appellante riferito egli veniva individuato dagli scafisti come uno dei soggetti che avrebbe condotto il natante… quando si trovava ancora nella spiaggia libica. Lo stesso riferiva che i libici lo istruirono brevemente sulle modalità di conduzione dei natanti facendogli anche fare dei giri di prova. Sarebbe bastato al predetto rinunciare chiaramente a detto incarico … ad esempio facendo credere di non esser in grado di condurre adeguatamente il natante.”

Potremmo dire che il caso dimostra elementi del tipo “scafista forzato” ma per il giudice ricade nella categoria del “migrante-capitano retribuito”.

  • N., ucraino: Impara a guidare una barca a vela all’età di 35 anni, un cambiamento di professione dopo il lavoro di fotografo. Fa varie gite nel Mar Nero prima di partire verso la Turchia per partecipare alla stagione turistica nell’Egeo. Appena arrivato in Turchia, scopre che il lavoro per cui è stato invitato non consiste nel portare in barca a vela un gruppo di turisti, ma 70 siriani che vorrebbero venire in Italia, e pagano bene per il suo lavoro. Inconsapevole delle conseguenze penali – o per lo meno, non pienamente consapevole – arriva nella costa pugliese in barca vela e viene arrestato. Trascorre 2 anni in carcere; una volta uscito, decide di rimanere in Italia. Presenta domanda di asilo e gli viene riconosciuto lo status di rifugiato.

In questo caso il capitano inizia come uno scafista retribuito ma finisce come profugo; viene arruolato in un’organizzazione, ma non comprende del tutto di che tipo di organizzazione si tratti.

  • 8 giugno 2020. Quattro persone vengono condannate per contrabbando e favoreggiamento di immigrazione clandestina: due cittadini italiani (di Palermo) e due cittadini tunisini, di cui uno residente da anni a Marsala e uno rintracciato in Germania nel gennaio 2019. Altri cinque cittadini tunisini – tutti residenti in Sicilia – rimangono in carcere in attesa del processo. Altri sette cittadini tunisini citati nel capo di imputazione non sono stati rintracciati, due dei quali sono ritenuti responsabili per essere in contatto con gruppi estremisti religiosi fra la Tunisia e l’Europa. Tra di loro ci sono sicuramente i capitani delle barche, ma sono viaggi e vicende giudiziarie che si occupano poco del business di immigrazione e per lo più di altri interessi commerciali del Mediterraneo.

Torniamo anche al racconto di C., che abbiamo riportato sopra come esemplare del tipo ‘capitano retribuito’. Adesso, però, aggiungiamo la prima parte del suo racconto, antecedente ai fatti sopra riportati, in cui egli descrive in maniera molto puntuale il modo in cui è arrivato a guidare la barca:

“Ho pagato il cockseur perché mi ha dato l’ospitalità quando ero in libia…. Quel cockseur, sapevo che è una persona che fa il suo lavoro bene. E’ venuto per prendere 4 ragazzi dal nostro gruppo a Tripoli, a casa, e mentre parlavo con lui ho dovuto seguire loro. Ho detto a lui che non avevo tempo da perdere e potevo pagare, il primo possibile. L’ho pagato 800 e mi ha portato al connexion house. Poi abbiamo sentito che c’era una partenza a Sabrata e siamo andati là per la partenza. Poi però c’era tempo brutto e non potevamo partire. Dopo un paio di mesi, c’era un problema di capitani, perché non ce n’erano abbastanza nella nostra connexion house. Quindi il soldato libico, che voleva fare partire tante barche tutte insieme, aveva bisogno di tanti capitani…. C’era anche il problema che alcuni dei capitani precedenti non sapevano portare la barca, e sono tornati diverse volte con le barche ancora cariche di persone…. Alcuni ragazzi gambiani, pescatori che conoscevo, hanno detto al libico che ero pescatore anch’io. I libici mi hanno chiesto se so guidare e ho detto no – perché avevo pagato. Sono tornati di nuovo, hanno detto che sanno che so guidare, e mi hanno separato dagli altri, lasciandomi in uno spazio piccolo, tipo isolamento per fare in modo che mi convincessi. Non volevo guidare perché sapevo già che poteva finire male – sono di Mbour, conosco altre persone che hanno guidato e sono arrivati e sono finite in carcere in Italia. Poi un amico senegalese mi ha fatto capire che non potevo continuare a dire no, che prima o poi i libici mi avrebbero ammazzato. Quindi la volta successiva ho detto di sì.”

Il variegato miscuglio di ruoli, responsabilità, reati, obiettivi e motivazioni complicano non solo le vicende giudiziarie, ma anche il modo in cui organizzazioni umanitarie, osservatori e gruppi politici possono reagire alle accuse mosse contro i c.d. “scafisti”. Ogni persona e gruppo di persone ha la responsabilità di decidere autonomamente, all’interno di questo spettro, dove voler porre limite a espressioni di solidarietà e sostegno, quali sono i principi e i valori che non dovrebbero essere superati e quali, invece, le azioni di cui non ci vogliamo fare carico o, addirittura, riteniamo debbano essere in qualche modo punite.

​6. Il concetto di ‘difendibilità’

Va osservato che seguendo questo modello di uno spettro di ‘capitani’, questo ruolo può essere letto in termini sia giudiziari che politici, spostando l’ago della bilancia simbolica da un lato all’altro su una scala di ‘difendibilità’. Ad un estremo abbiamo i casi di scambio di persona, rispetto a qualsiasi accusa (che sia traffico o favoreggiamento o violenza): qua si tratta di problemi processuali e investigativi, e non c’è alcuna scelta sull’importanza di difendere l’innocenza dell’imputato. Poi ci sono i casi dei capitani ‘forzati’ e ‘per necessità’ che lo fanno senza scopo di lucro, dolo o intenzionalità; questi sono generalmente i casi sui quali le associazioni per i diritti dei migranti hanno finora incentrato di più la loro attenzione. Colpevole sicuramente di aver favorito l’immigrazione nel senso più stretto del termine, la difesa politica di persone che ricoprono questo ruolo ha una buona presa sull’opinione pubblica, ma purtroppo meno successo nella sfera giudiziaria (torneremo su questo punto nella Sezione 3). Poi ci sono le persone che guidano la barca in cambio di una remunerazione, che sono magari coscienti anche delle conseguenze penali, ma lo fanno per portare a termine il loro progetto migratorio, costretti a vendere la propria forza-lavoro in questo modo, come strategia per aggirare le politiche di chiusura delle frontiere. In questo caso sono tante le associazioni e i gruppi politici che potrebbero essere solidali con le loro azioni, ma la difesa politica di questa figura ha poco successo nelle aule dei tribunali italiani, e probabilmente sempre meno nell’opinione pubblica. Arriviamo poi agli scafisti dell’organizzazione, che fanno la spola fra una costa e l’altra, senza alcun progetto migratorio: ora la possibile difesa ai fini di un’assoluzione in tribunale rasenta lo zero, così come la loro difendibilità nella sfera pubblica. Nel mondo delle associazioni e organizzazioni per la difesa dei migranti e della migrazione, la situazione è altrettanto controversa, in quanto si tratta di persone che magari sfruttano la debolezza dei migranti stessi, lucrando sulla chiusura dei confini.

Per quel che ci riguarda, noi crediamo che sia possibile difendere tutti gli accusati sulla base di una critica alla criminalizzazione della migrazione in sé e per sé, criminalizzazione sulla quale si fonda il sistema che produce tutte queste situazioni. Questo si può ottenere opponendosi all’esistenza delle frontiere e di qualsiasi legge che criminalizzi l’attraversamento delle stesse e la guida delle barche a tal fine. In questo quadro, anche alcuni dei casi apparentemente più controversi descritti nel rapporto possono essere difesi, sulla base del fatto che gli accusati potrebbero forse essere processati per crimini relativi al contrabbando di merci illegali o per violenza contro le persone, ma non per favoreggiamento del traffico di persone. Questo costituisce un ultimo punto dello spettro, che lo destabilizza. A questo punto, le diverse motivazioni alla base delle decisioni dei capitani di prendere il timone diventano meno importanti per capire cosa succede in mare.

Per capire le ragioni di questa varietà di ruoli e modalità di organizzazione all’interno dei viaggi, e come sono state successivamente contrastate dalle indagini e dai procedimenti penali europei, torniamo ora – letteralmente – al punto di partenza.