7. Carcere

  1. I detenuti stranieri
  2. I domiciliari
  3. Le sfide della detenzione
  4. Detenuti di lungo termine
  5. La zona grigia

Nel presente capitolo descriviamo la situazione in carcere delle persone fermate e/o condannate come capitani delle barche. L’argomento sarà diviso in tre sezioni: dapprima faremo una panoramica dei problemi che i capitani affrontano in carcere, dove si trovano e gli ostacoli alle misure alternative alla detenzione. Procederemo poi ad un focus su una sotto-categoria di detenuti: i detenuti a lungo termine, cioè coloro che hanno ricevuto una condanna di 10 o più anni di reclusione.

C.C. Pagliarelli, Palermo. Fonte: Antigone.

​1. I detenuti stranieri

Un’esposizione sulla detenzione delle persone accusate o condannate come ‘scafisti’ deve in primo luogo tener presente il contesto più ampio della detenzione dei detenuti stranieri in Italia.

Va infatti ricordato che per la maggior parte della popolazione carceraria straniera l’Italia è un paese nuovo, di cui non conoscono la lingua, le leggi, la cultura ed in cui devono ambientarsi in un contesto molto difficile, ossia in detenzione o addirittura in isolamento. Tanti sono gli ex-detenuti che abbiamo intervistato che parlano della disperazione vissuta durante la detenzione, della difficoltà d’esser compresi, d’esser riconosciuti come persone e soggetti titolari di diritti. Crediamo che sia particolarmente importante sottolineare questo aspetto della vita degli scafisti non solo perché non è mai stato trattato finora, per quel che sappiamo, ma soprattutto perché riteniamo meriti particolare approfondimento.

Come racconta l’associazione Antigone, la principale organizzazione indipendente che monitora la situazione delle carceri in Italia, gli stranieri rappresentano attualmente il 32,5% della popolazione carceraria. Si tratta di una percentuale particolarmente alta anche paragonata con altri paesi europei: Italia è in primo posto fra i paesi più grandi dell’UE. È particolarmente arduo capire quante di queste persone siano detenute per reati connessi al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il sito del Ministero di Giustizia riporta che le persone detenute per reati connessi al Testo Unico sull’immigrazione sono 1.267. Questa cifra però include non solo il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ma anche tanti reati che non riguardano le persone al centro di questo report (per es.: coloro che permangono in Italia senza documenti, condannati per traffico di persone – anche terreste –, sfruttamento, ecc.). Le cifre annuali riportate dal ministero sono le seguenti:

​2. I domiciliari

La maggior parte dei detenuti stranieri condivide lo stesso problema dell’acceso alle misure alternative, in primis gli arresti e la detenzione domiciliare. A differenza dei detenuti italiani, è comune per gli stranieri non avere un domicilio presso il quale scontare la misura cautelare, o perché, appena arrivati in Europa, sono privi di rete sociale e familiare, oppure perché in una situazione di disagio economico e quindi senza dimora. Inoltre, se il detenuto non ha un permesso di soggiorno -cosa quasi del tutto scontata per coloro che sono appena sbarcati- il giudice ritiene elevato il pericolo di fuga e mostra una certa riluttanza nel concedere i domiciliari.

È bene precisare la differenza tra gli arresti e la detenzione domiciliare. Mentre i primi riguardano il periodo cautelare prima di una condanna definitiva, per i secondi si intende una misura detentiva a cui un detenuto può accedere solo dopo la condanna definitiva. Per essere più precisi, si arriva a una condanna definitiva solamente quando l’imputato accetta la sua pena definitivamente, ovvero quando l’imputato è stato condannato all’ultimo grado di giudizio.

L’effetto della discriminazione tra italiani e stranieri è evidente dalle statistiche sulla durata della pena definitiva che scontano in carcere: gli stranieri detenuti per una pena definitiva da 3 anni in giù sono poco più di 3.000, mentre il numero di italiani è quasi 4.000. In altre parole, sono molto simili i numeri di italiani e stranieri in carcere per condanne relativamente ‘leggere’ nonostante gli stranieri rappresentino solamente un terzo della popolazione carceraria. Per precisare, i detenuti italiani hanno la possibilità dopo una condanna definitiva di scontare la pena in una casa – la loro, di parenti o di amici; e va ricordato che la detenzione domiciliari spesso riconduce anche ad altre misure alternative (p.e. l’affidamento in prova al servizio sociale) e sostitutive (p.e. la libertà vigilata) secondo il principio di gradualità. Gli stranieri invece, spesso, non avendo una casa, scontano la pena in carcere, gonfiando così la percentuale della popolazione carceraria di origine straniera.

Questo vale sia per i cd scafisti il cui procedimento è in corso che per quelli condannati. Le difficoltà relative all’accesso a queste misure alternative comporta che i cosiddetti scafisti rimangano in carcere per l’intera durata del processo e fino al termine dello sconto della pena, anche in situazioni in cui persone italiane accusate di reati più seri (p.e. contro la persona) uscirebbero facilmente.

Pertanto la criticità della condizione degli scafisti non concerne soltanto il trattamento riservato loro dentro le aule di tribunale, ma anche la loro vita in prigione alla luce della discriminazione posta in essere dal sistema carcerario nei confronti dei detenuti stranieri. Ci si scontra, per esempio, con il paradosso per cui adottare una linea difensiva forte, volta a contrastare le false accuse rivolte nei confronti dei capitani spesso porta ad un prolungato periodo di detenzione cautelare in attesa di un giudizio definitivo. Nell’esperienza processuale l’imputato che ammette le proprie responsabilità e opta per un rito alternativo, oltre ad ottenere uno sconto della pena, può far cessare le esigenze cautelari; mentre chi decide una strategia difensiva volta a dimostrare la propria innocenza, rischiando di dover affrontare tutti i gradi del processo, rischia di vedere protratta la propria detenzione per l’intera durata del processo. Rende bene la situazione il racconto di un avvocato sulla vicenda processuale di un suo assistito:

“Ho seguito un ragazzo in appello e purtroppo abbiamo perso. La sentenza però era scritta male e probabilmente con un ricorso in Cassazione avremmo ribaltato la situazione. Purtroppo però il mio assistito (detenuto fin da subito) aveva già scontato quasi tutta la pena con la misura cautelare e la scelta era tra accettare la condanna e uscire subito oppure fare ricorso in Cassazione, probabilmente vincere ma rimane nell’attesa in carcere. Ha scelto di accettare la condanna. Sono difficili come avvocato queste situazioni ma bisogna sempre ricordarsi che sono poi loro a rimanere in carcere nell’attesa di una vittoria piena, e noi cosa voglia dire anche solo un giorno lì dentro non possiamo neanche immaginarcelo.”

Un ulteriore aspetto della legge contribuisce alla carcerazione dei capitani, cioè l’ostatività delle condanne. Nella legge italiana, la condanna per alcuni reati qualifica la “pericolosità sociale” del condannato, e quindi esse sono considerate ostative alla possibilità di accedere ad alcuni benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, che sono previsti per facilitare il suo reinserimento nel contesto sociale. Nell’aprile 2015 – per contestualizzare, proprio all’inizio del periodo più intenso della criminalizzazione dei capitani – è stata introdotta l’ostatività dell’articolo 12, comma 1 e 3. Questo vuol dire che anche quando una persona condannata come scafista arriva a una pena definitiva e possiede anche la disponibilità di una struttura o di una casa che lo può accogliere, il giudice di sorveglianza può negare l’accesso ai domiciliari sulla base del presupposta pericolosità sociale, a meno che siano emersi degli elementi tali da escludere che il condannato sia in collegamento con la criminalità organizzata o da far ritenere non abbia collaborato con la giustizia a causa della sua limitata partecipazione alla commissione del reato. Nel caso di G.A. è stato negato la detenzione domiciliari preso la casa di sua sorella (arrivata insieme con lui nel 2017) nonostante la “buona condotta” del detenuto e il contesto pandemico.

3. Le sfide della detenzione

​Lingua e scuola

La prima sfida che i detenuti stranieri affrontano in carcere è quella della lingua. Sebbene l’Ordinamento penitenziario stabilisce che non vi debbono essere discriminazioni in base alla nazionalità o razza, tale proposito non viene rispettato. Dall’immatricolazione alle visite mediche, dai colloqui con gli avvocati alle letture delle notifiche, dall’interazione con gli altri detenuti, le guardie alle richieste di beni di prima necessità, l’intero percorso del detenuto straniero – soprattutto per coloro che entrano il carcere subito dopo lo sbarco – si trasforma in un’esperienza traumatizzante. La solidarietà fra detenuti, sia stranieri che italiani, spesso è l’unico modo per il presunto ‘scafista’ per compilare i modelli per le domandine, comunicare con il mondo esterno, conoscere i suoi diritti e gestire le prassi istituzionali della detenzione. Per l’anno 2018, l‘associazione Antigone ha riportato la presenza di solo 165 mediatori linguistici per tutte le carceri italiane, che corrisponde ad un mediatore ogni 122 detenuti; in quasi 60% degli istituti visitati l’Associazione, questa figura era del tutto assente. Secondo l’Osservatorio del 2020, un mediatore culturale era presente in solo nel 9% degli istituti. Inoltre, ovviamente, quei pochi mediatori presenti non possono parlare tutte le lingue necessarie: è più probabile per l’arabofono trovare un interlocutore, piuttosto che per detenuto di lingua russa, twi o tigrina.

L’accesso all’istruzione in carcere è, da questo punto di vista, un elemento vitale per i detenuti stranieri e quindi anche per i presunti scafisti. Infatti, dei 20.000 detenuti iscritti a scuola in carcere nell’anno 2019/2020, poco meno della metà erano stranieri, e quasi il 50% di questi iscritti a un corso di alfabetizzazione. Questa situazione è drammaticamente cambiata, però, con la pandemia, quando le lezioni sono state praticamente interrotte (sebbene in alcuni istituti penitenziari si sia tentata la ‘didattica a distanza’). Secondo la nostra esperienza, la scuola pubblica che si svolge dentro gli istituti penitenziari funziona molto bene e ottiene grandi risultati, fino al punto che capita che spesso i capitani ex-detenuti parlino un italiano migliore rispetto agli altri migranti presenti sul territorio arrivati nello stesso periodo, ma che non hanno avuto le stesse opportunità scolastiche a causa delle criticità del sistema di accoglienza. Esemplare il caso di un cittadino marocchino, imputato in ragione di un naufragio, che dopo 3 anni di custodia cautelare in carcere ha fornito una dichiarazione in tribunale “direttamente in buon italiano.”

Rapporti con parenti e amici

Un aspetto fondamentale e che differenzia la detenzione degli stranieri dai cittadini italiani è la possibilità di contatto con parenti e amici.

Innanzitutto vi sono tanti detenuti arrestati al loro arrivo in Italia che non sono riusciti a contattare i loro familiari ed informarli della loro condizione. Questo è il caso con E., fermato a Palermo nel 2016 e detenuto per più di due anni prima di essere assolto; solamente all’uscita dal carcere è riuscito di chiamare la sua famiglia ed informarla della vicenda, scoprendo che i parenti lo consideravano disperso ed avevano fatto dei riti funebri.

In tanti altri casi i detenuti riescono, seppur con difficoltà, a rintracciare e sentire i propri familiari. Infatti va ricordato che i detenuti non hanno libero accesso al telefono, ma devono prenotarlo e usarlo in maniera monitorata. La prassi prevede che una prima richiesta venga fatta alla matricola della sezione, ovvero un ufficio del carcere che fa da intermediario tra la cella e il mondo esterno, riportando il numero da chiamare. Qui si presenta un primo ostacolo: è facile durante il viaggio in mare perdere un pezzo di carta con su scritto un numero di telefono e quindi un detenuto straniero potrebbe non avere neanche un contatto da chiamare. La matricola poi scrive all’ambasciata del paese in cui il parente si trova, e questi riceverà una chiamata dall’ambasciata per accertare e autorizzare il contatto. A questo punto sopraggiunge un altro problema: se nel paese di origine è considerato illegale emigrare o il detenuto è un potenziale rifugiato, egli stesso e la sua famiglia nel paese di origine potrebbero correre gravi pericoli nel render noto all’autorità consolare che egli è fuggito e di trova in Italia.

Anche se viene stretto un primo contatto, la regolarità dei colloqui telefonici resta un problema, perché il detenuto deve avere i soldi per comprare una scheda telefonica fornita dall’istituto penitenziario e ricaricarla. In mancanza di risorse, se il detenuto non può ammesso al lavoro all’interno del carcere, diventa fondamentale oltre che la solidarietà tra detenuti, l’intervento di volontari, che possano aiutarlo. A causa di questi ostacoli, possono trascorrere anche 4, 6 mesi prima che il detenuto riesca a contattare un parente e spesso i successivi colloqui avvengono con scadenza annuale.

Le visite in carcere sono ancora più rare per i detenuti stranieri, soprattutto quelli arrivati in Italia da poco, senza legami familiari presenti sul territorio. Sono pochissimi i capitani che hanno ricevuto delle visite durante la loro detenzione; un paio di loro hanno sostenuto dei colloqui con i volontari esterni al carcere. Questa situazione è migliorata durante la pandemia, visto che i colloqui per tutti i detenuti sono stati sostituiti dalle videochiamate, uno strumento che ha facilitato tanti detenuti stranieri. Richiamiamo l’esperienza di B., detenuto in Sicilia, che è riuscito ad avere colloqui telefonici regolari con suo cugino, residente in nord Italia, che non avrebbe avuto i mezzi economici per recarsi con cadenza periodica al sud.

Anche il contatto tra difensore e detenuto è stato facilitato dal colloquio difensivo effettuato tramite chiamate telefoniche e videochiamate. Ciò ha avuto un doppio risultato: da un lato la modalità riduce il senso di privacy nel corso della conversazione anche se i colloqui difensivi telefonici in carcere devono avvenire con “fonia riservata” (un effetto deleterio creato anche nelle udienze tenute con modalità ‘a distanza’, che presentano l’impossibilità di interloquire con il difensore di presenza nel corso delle udienze da remoto per rispetto della privacy). Dall’altro lato però ha spesso facilitato la comunicazione tra difensore e detenuto, visto che l’avvocato non deve recarsi fisicamente in carcere.

Le misure attuate nel corso della pandemia – colloqui ridotti o annullati, sostituiti con chiamate telefoniche o videochiamate – continuano ad essere applicate al momento di scrittura di questo report, quando tutta la popolazione carceraria è stata vaccinata Va notato, inoltre, che non si tratta di modalità introdotte in seguito alla pandemia, ma dell’uso regolare che per la prima volta si è fatto di queste modalità (Articolo 18 del legge n. 354/1975): i colloqui telefonici con l’avvocato sono da decenni previsti dall’ordinamento penitenziario ma fin ad ora è stata una modalità poco attuata (di solito il detenuto chiamava l’avvocato al telefono o gli scriveva per chiedergli di fargli visita). Quello che è successo durante la pandemia è che per la prima volta ogni istituto penitenziario in Italia ha dovuto munirsi di un regolamento dei colloqui telefonici e audiovisivi, permettendo a tutti l’accesso a questa modalità. C’è da sperare che ora rimarranno in uso.

4. Detenuti di lungo termine

Una categoria di detenuti che va approfondita è quella degli ergastolani e detenuti di lungo termine, ritenuti responsabili della morte di migranti in seguito di un naufragio, o in caso di arrivo di imbarcazioni colme di cadaveri di persone che non sono sopravvissute alla traversata. Durante la ricerca abbiamo saputo di una ventina di persone che sono ancora imprigionate nelle carceri italiane, condannati in connessione con tali vicende; in tantissimi casi usati come gli unici capri espiatori di colpe rintracciabili nelle tragiche politiche europee di difesa dei confini.

Qui sopra forniamo una tabella riassuntiva di quattordici casi che abbiamo incontrato riguardanti persone condannate sia per articolo 12 del TUI (favoreggiamento di immigrazione clandestina) che perché ritenute responsabili delle morti avvenute durante il viaggio. Lo spettro di casi va dai più noti disastri marittimi avvenuti nel Mediterraneo (p.e. i naufragi di 3 ottobre 2013 e di 18 aprile 2015) a quelli meno conosciuti, dove i passeggeri non sono sopravvissuti al viaggio.

I processi contro le persone ritenute responsabili di queste morti hanno gli stessi problemi che abbiamo visto nei processi contro i capitani più in generale: una scelta arbitraria di testimoni; l’assenza di interpretariato o l’utilizzo di interpreti inadeguati; l’assenza di un’informazione degli imputati sui propri diritti, sui riti del procedimento penale e una libera scelta del difensore. Tutti questi fattori diventano ancora più gravi, attuali e tragici rispetto all’entità della pena richiesta dalle Procure della Repubblica. Esemplare è il caso di S. M., accusato di aver svolto un ruolo nella morte di 26 persone il 05/08/2015, insieme a quattro coimputati. Nel specifico, è stato accusato di aver commesso i reati di favoreggiamento dell’ingresso clandestino, con tutte le sue aggravanti tra cui lo scopo di lucro, omicidio aggravato. La procura ha chiesto l’ergastolo con isolamento diurno per i primi 12 mesi. Grazie ad un lavoro estenuante del difensore, è stato dimostrato che la prova era “insufficiente e contraddittoria”, ed è stato assolto da tutte le accuse. Senza dubbio, se gli fosse stato assegnato un avvocato con meno capacità ed esperienza, si sarebbe potuto concretizzare il rischio di essere condannato all’ergastolo, o rischiare di rimanere in carcere altri 25 anni.

​Il naufragio del 3 ottobre 2013

Il 2 ottobre 2013 partiva una barca dalla Libia con circa 540 persone a bordo. Dopo un giorno in mare, il capitano ha spento il motore, probabilmente causa di un guasto, e ha lasciato la barca alla deriva per due ore nella speranza che qualcuno li soccorresse. Due navi le sono passate accanto, ma non hanno prestato soccorso. Per attirare l’attenzione delle navi in transito, il capitano ha dato fuoco ad un lenzuolo. Questo atto ha creato panico a bordo, provocando il rovesciamento della barca e l’annegamento di almeno 366 persone.

Il relitto del 3 ottobre 2013. Fonte: Vigili del Fuoco.

Il capitano non era solo: i tre testimoni sentiti hanno parlato di un’altra persona, anche lui morto nel disastro. L’imputato ha prima negato e poi ammesso il suo ruolo, non solo nella tragica traversata di ottobre, ma anche in un’altra nell’aprile dello stesso anno. Egli ha raccontato che il precedente aprile era stato espulso dal territorio italiano e che in occasione di entrambe le traversate aveva guidato la barca sotto minaccia, una spiegazione ritenuta non attendibile dalla Procura. Nella prima sezione di questo report, però, si documenta che è del tutto plausibile che un capitano venga minacciato dai trafficanti per condurre la barca, ad esempio quando anche dopo l’ingaggio si rifiuta di condurre la barca fornita dell’organizzazione criminale perché la ritiene non idonea al viaggio. Con ciò si evidenzia come un capitano, anche se retribuito, può ricevere delle minacce dall’organizzazione criminale con un modus operandi che si basa sulla violenza e all’interno della quale lui è solo una pedina o comunque manovalanza a basso costo.

Nell’ambito della ricostruzione del caso, il giudice ha ritenuto che l’imputato avesse messo in pericolo i passeggeri dell’imbarcazione, e fosse pertanto responsabile, non per avere appiccato un incendio a bordo – riconosciuto come un messaggio internazionalmente di SOS in mare – ma per aver sovraffollato la barca. Infatti, la causa principale della strage fu ritenuto il soprannumero di persone sull’imbarcazione e di quelle costrette nella stiva. Va detto però che in altri processi aventi ad oggetto tragedie come quella del 3 ottobre 2013, ad es. uno che vede come imputato un cittadino somalo accusato di essere dentro un’organizzazione di trafficking, paradossalmente il capitano non è stato ritenuto responsabile né delle condizioni della barca né del numero esuberante delle persone a bordo. Vi è dunque da fare una distinzione tra il capitano e l’organizzazione che sfrutta la disperazione delle persone, altrimenti si finisce per accusare (e condannare) l’unico imputato anche per le responsabilità addebitabili ai veri trafficanti.

Ritornando al caso del 3 ottobre 2013, il giudice ha ritenuto che il capitano non abbia spento il motore per un guasto ma perché non avrebbe voluto essere individuato come la scafista. La determinazione di confondersi tra i passeggeri lo avrebbe anche spinto, secondo il giudice, a gettare il telefono satellitare in acqua.

L’imputato è stato condannato a 7 anni per favoreggiamento dell’ingresso clandestino aggravato, a 6 anni per procurato naufragio e a 12 per omicidio, per un totale di 25 anni ridotti a 18 anni per la scelta del rito abbreviato. La sentenza è stata pienamente confermata in sia appello che in Cassazione. Attualmente il presunto capitano ha ancora dieci anni da scontare.

​La strage di ferragosto 2015

Nel ferragosto del 2015, 49 persone sono morte asfissiate all’interno dello scafo di un peschereccio, nel quale erano stipate con altre circa 100 persone. I sopravvissuti furono 313. I testimoni riferiscono che l’imbarco è stato gestito da un gruppo di libici rimasti sulla terra ferma. Quando i passeggeri imprigionati nella stiva hanno cercato di uscire, gli altri sul ponte glielo hanno impedito con ogni mezzo a loro disposizione, p.e. lanciando bottiglie di vetro o a colpi di cintura. Il motivo di tale accanimento riguardava la stabilità della nave: la variazione di peso tra le parti dell’imbarcazione può causarne il ribaltamento in caso di sovraffollamento. Ma la decisione, da parte degli organizzatori del viaggio, di accendere i motori due ore prima dell’effettiva partenza, quando già i passeggeri erano ammassati dentro la stiva, è stata considerato l’atto che ha condannato tante persone a morte.

Dopo il salvataggio in mare, otto persone furono accusate di aver fatto parte del cosiddetto equipaggio della nave. Per scongiurare la possibilità dell’essere condannati all’ergastolo, cinque degli imputati hanno scelto il rito abbreviato e sono stati accusati di aver portato i passeggeri in Italia “al fine di trarne profitto, anche indiretto… ponendosi sin dall’inizio della traversata al comando e al governo” della barca. Tra questi imputati, uno è stato anche accusato di essere il “comandante” e due di aver dato “direttive in ordine alla dislocazione e al mantenimento della posizione dei passeggeri.” Nel corso del procedimento tre imputati, giudicati con rito abbreviato, sono stati condannati ciascuno a 20 anni di carcere. Gli altri imputati che hanno scelto di affrontare il giudizio ordinario hanno ricevuto pene di 30 anni ciascuno, confermati in ogni grado di giudizio.

Uno dei condannati, C.H., appartenente al primo gruppo di imputati, ha ammesso di aver guidato la nave, di aver avuto un telefono satellitare, ma ha negato che vi fosse un equipaggio. La testimonianza però di 9 sopravvissuti ha contraddetto quanto da egli affermato, individuando altri 7 imputati come complici di C.H.. Un altro dei condannati, S.M., ha raccontato di essere stato inizialmente messo anche lui nella stiva, dalla quale è poi riuscito a scappare. I testimoni, come al solito, sono stati pochissimi: dei 305 passeggeri, furono ascoltate soltanto 9 persone e in alcuni casi sono state ritenute attendibili soltanto le testimonianze in linea con la tesi dell’accusa. Ad esempio A.A.F, che ha fatto il rito ordinario, era stato indicato dall’accusa come quello che aveva usato la cintura contro coloro che tentavano di uscire dalla stiva, ma tale condotta gli è stata attribuita solamente da 3 dei 9 testimoni, e 2 di questi riferiscono che l’imputato ha solo passato l’acqua fra i passeggeri – un atto tanto semplice quanto, se visto come un atto di distribuzione dell’acqua, ritenuto storicamente sufficiente per accusare qualcuno di aver fatto parte dell’equipaggio.

Quattro dei cinque imputati giudicati con rito ordinario sono cittadini libici e calciatori, un gruppo di amici che volevano continuare la loro carriera in Europa. Il caso è conosciuto come quello dei ‘calciatori libici’. Il 2 luglio 2021 il caso è arrivato dinnanzi alla Corte di Cassazione, che ha confermato la sentenza di appello. Al momento siamo in contatto soltanto con 5 dei condannati, che si trovano reclusi nelle carceri di Caltagirone, Catania, Siracusa, Trapani e Volterra.

Manifestazione a Bengazi, Libia, di amici e parenti dei cittadini libici condannati a 30 anni di carcere per aver fatto parte dell’equipaggio. Fonte: MEE.

​La zona grigia

In quest’ultima riflessione sui detenuti di lungo termine, diamo spazio ad alcuni casi che cadono in quella che noi definiamo come “zona grigia”. La frase risulta da un saggio dello scrittore, partigiano e sopravvissuto della Shoah, Primo Levi, con cui volle indicare coloro che collaborarono nei Lager nazisti, i cosiddetti Kapos, i capibaracca, le squadre di lavoro.

“E’ talmente forte in noi… l’esigenza di dividere il campo fra “noi” e “loro”, che questo schema, la bipartizione amico-nemico, prevale su tutti gli altri… Questo desiderio di semplificazione è giustificato, la semplificazione non sempre lo è. E’ un’ipotesi di lavoro, utile in quanto sia riconosciuta come tale e non scambiata per la realtà; la maggior parte dei fenomeni storici e naturali non sono semplici, o non semplici della semplicità che piacerebbe a noi. Ora, non era semplice la rete dei rapporti umani all’interno dei Lager: non era riducibile ai due blocchi delle vittime e dei persecutori.”

In questi anni, i Lager in Libia spesso sono stati paragonati ai Lager nazisti, magari polemicamente – non si tratta del genocidio sistematico del nazismo – ma comunque con la giusta intenzione di sottolineare l’aberrante frequenza di atti di tortura, omicidi e la denigrazione della vita umana nelle ‘connection house’. Se questo paragone viene utilizzato, è opportuno allora guardare questo fenomeno anche con gli occhi di Primo Levi per chiarire quali possano essere le dinamiche all’interno di un posto del genere.

Diversi sono i casi di stranieri imprigionati nelle carceri italiani per il loro apparente ruolo nelle prigioni libiche. Le accuse sono varie – omicidio colposo, omicidio plurimo, tortura, trattamento disumano e degradante, violenza sessuale – e potrebbe sembrare che in questa sede non abbiano avuto una degna rilevanza. Prima di andare ad esaminare alcuni casi più in dettaglio, vale la pena collocare alcuni dei casi trattati in questo contesto. Il processo contro le otto persone accusate di aver causato la strage di ferragosto 2015 (il caso dei “calciatori libici”) non vede coinvolti solo i ‘capitani’, ma anche persone accusate di aver fatto parte dell’equipaggio: sono stati condannati, fondamentalmente, perché accusati di essere stati violenti nel confronto degli altri passeggeri. Ma se qualcuno dei passeggeri è colpevole di un reato semplice (p.e. aggressione) nei confronti di un altro, non è detto che debba necessariamente appartenere al gruppo di comando della barca o di un’organizzazione di trafficanti. Anche in questo caso, quindi, la linea fra ‘capitano’, ‘equipaggio’ e ‘aggressore’ può essere, appunto, grigia.

Un caso esemplare è quello di tre cittadini marocchini soccorsi inizialmente dall’ONG Medici Senza Frontiere e poi trasbordati in una nave della Guardia Costiera nel novembre 2017. Il testimone principale dell’accusa ha parlato di loro non solo come un gruppetto che ha guidato la barca collettivamente (tenevano il timone a turno visto che soffrivano di mal di mare) ma anche del loro ruolo di guardie nel carcere libico, raccontando come vigilavano nelle stanze e distribuivano i pasti. Sebbene siano stati accusati di altri reati in connessione con questi compiti, sono stati condannati ‘solamente’ per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e questa loro descrizione è stata utilizzata come prova della vicinanza degli imputati all’organizzazione libica: non capitani di fortuna quindi, ma ‘scafisti’ integrati nell’organizzazione della tratta di esseri umani. Le priorità lucrative dell’organizzazione criminale sono sembrate così esplicite al giudice in questo caso che ha negato categoricamente la tesi della difesa, pur provata in giudizio, secondo la quale i trafficanti avessero affidato la barca a persone inesperte. Non solo abbiamo visto, nelle sezioni precedenti, che è del tutto possibile che il timone venga affidato a persone senza nessuna conoscenza del mare, ma constatiamo come i ruoli svolti nella prigione libica dal trio marocchino sono lontani dall’implicare un fitto legame con gli altri elementi organizzativi presenti in Libia. Stiamo forse parlando di persone che hanno approfittato di una posizione di vantaggio, che hanno mancato di solidarietà tra i detenuti, che magari hanno commesso violenza, ma sempre in una situazione in cui essi stessi la subivano ed in cui rischiavano la vita. Ciò non fa di loro degli eroi, ma neanche dei trafficanti.

Più grave, invece, sono state le accuse nei confronti di tre migranti fermati nel 2019 in una vicenda che ha coinvolto sia le ONG Mediterranea che la Sea Watch. A luglio di quell’anno la nave Alex ha soccorso e fatto sbarcare 59 persone. I nuovi arrivati, nel corso delle indagini per identificare il capitano, hanno riferito della tortura subita in Libia ed hanno anche fornito i nomi di alcuni dei loro torturatori, che erano tra le persone sbarcate con la nave Sea Watch. Sono stati accusati di associazione a delinquere, sequestro di persona e tortura. I ruoli descritti dai testimoni sono stati i seguenti: uno teneva le chiavi e decideva chi entrava e usciva; un secondo si occupava di sedare le ribellioni, appellandosi alle guardie del carcere; l’ultimo vigilava durante i pasti. Non presenti nell’aula di tribunale perché ancora in Libia venivano individuati sia come capi dell’organizzazione che torturava e ricattava i migranti sia come torturatori stessi. Gli imputati, tuttavia, non facevano parte dell’organizzazione ne avevano torturato, ma erano appunto nella zona grigia dell’essere colluso per non essere vittima.

Nell’appello, gli avvocati evidenziano vari aspetti critici inerenti l’andamento del processo. Innanzitutto vi è un’imprecisa procedura per la ricognizione dei soggetti, che dipende dall’utilizzo – come spesso succede nelle indagini contro gli stranieri in Italia – delle foto in bianco e nero, fotocopiate dall’albo originale, e comunque che ritraggono persone di pelle scura che mal si riconoscono dalle immagini usate. Vi è poi una spinosa questione di giurisdizione: si tratta di rei e vittime non italiani, accusati e ascoltati su fatti non commessi in Italia, ma comunque processati e condannati nella penisola. Infine, gli avvocati notano come il giudice abbia tralasciato parte della testimonianza degli altri sopravvissuti al viaggio, in cui confermavano che gli imputati erano essi stessi dei prigionieri, costretti a collaborare con i loro carcerieri e che sono sfuggiti, attraversando il Mediterraneo, nella stessa maniera dei testimoni, ovvero rischiando la vita in mare.

Nulla nega la veridicità delle accuse dei migranti vittime di tortura in Libia. Il centro di detenzione in quanto Lager è stato dipinto nel dettaglio, così come le pratiche di tortura che sono state utilizzate in quel luogo. Ciò nonostante, i processi contro i cosiddetti torturatori sono trattati con la stessa pericolosa leggerezza (es. fotografie in bianco e nero per accusati neri, testimonianze apprezzate capziosamente) che viene usata nei processi contro gli scafisti. Soprattutto, anche quando sono stati descritti episodi di violenza attribuiti agli imputati, non sono stati poi valutati i motivi alla base della loro condotta. È bene sottolineare infine che il Lager a cui si fa riferimento in questo caso è in realtà un centro di detenzione supervisionato dall’OIM, e gestito da Abdurhaman al-Milad, il noto criminale e trafficante libico, che gode di un rapporto privilegiato con le istituzioni transazionali e anche con l’Italia.

Ciò ci spinge ancora una volta a domandarci quali attori vengono collocati fuori da questa zona grigia e chi finisce per essere condannato a vent’anni di reclusione ingiustamente.

Una manifestazione dai migranti in un connection house libico, contro l’Unhcr. Maggio 2019. Fonte: Al Jazeera.

È difficile per dei giudici italiani poter conoscere e valutare la complessità delle relazioni umane che si svolgono in luoghi come i lager libici, o in un’imbarcazione di migranti in pericolo in mezzo al mare. Le azioni di persone che vengono condannate come aguzzini possono suscitare riflessioni etiche in uno sguardo che presta più` attenzione al contesto, e alle costrizioni sotto cui queste persone operavano.

Dagli esempi che abbiamo portato emerge un pregiudizio delle autorità italiane ed europee nei confronti del contesto e delle persone coinvolte nei fenomeni descritti. Questo e` verosimilmente determinato dal pensiero diffuso della criminalizzazione dell’atto dell’attraversare la frontiera, da cui gli autori di questo report si discostano e che condannano. Ma anche è determinato – e forse in maniera più problematica – dalla pericolosa commistione e confusione, sia politica che giuridica, dell’atto di attraversamento della frontiera con le violenze che hanno luogo nei lager da cui le persone scappano, e regolarmente anche sulle imbarcazioni sovraffollate di migranti diretti in Italia. Questa confusione – funzionale a chi cerca di scoraggiare la migrazione in Europa – pone una serie di problemi etici, politici e giuridici che dovrebbero essere portati all’attenzione di tutti i cittadini italiani ed europei e dover essere discussi.