4. Partenze

  1. La rotta egiziana
  2. La rotta algerina
  3. La rotta libica
  4. Le rotte adriatica e ionica
  5. La rotta tunisina

In questa sezione descriviamo tutte le rotte migratorie marittime verso l’Italia, guardandole dal punto di vista dello sviluppo del ruolo del capitano e le azioni che Italia ha portato avanti per criminalizzarle. In ogni descrizione le domande sono:

  • Chi sono i capitani e come lavorano?
  • Quali sono state le principali operazioni di polizia attive nelle rotte?
  • Quali sono le modalità attuali per criminalizzare le rotte?

​1. La rotta egiziana

La rotta egiziana collega l’Egitto alla Grecia e all’Italia meridionale. Va detto dall’inizio che le varie rotte richiedono non soltanto capitani di vario tipo, ma anche una varietà di barche e viaggi resi necessari: la rotta egiziana è molto lunga e richiede barche più grandi per sopravvivere alla traversata (questo non è il caso, per esempio, della rotta tunisina).

La rotta è stata segnata da vicende giudiziarie sin dal naufragio della F174 nel Natale del 1996, una nave cargo che era ‘la nave figlia’ di un’imbarcazione più grande da cui erano state trasferite 300 persone originariamente partite dal Cairo. Molti superstiti sono stati successivamente portati in Grecia e poi in Italia nel febbraio del 1997; la testimonianza dei sopravvissuti non è stata ascoltata per tanti anni. Elemento importante della vicenda giudiziaria è che il tribunale ha seguito un processo che ha visto tra gli imputati solamente persone che si trovavano fuori dall’Italia, senza iniziare procedimenti a carico dei migranti sbarcati sul territorio. A livello giudiziario, infatti, erano stati individuati i vertici del traffico e coloro che erano direttamente responsabili per l’organizzazione del viaggio.

Come vedremo anche nel caso della rotta adriatica, la criminalizzazione della rotta egiziana è stata sviluppata negli anni tramite la collaborazione fra la Guardia di Finanza e Frontex, prima dell’operazione Mare Nostrum. Una prima reazione delle autorità si vede all’inizio con l’operazione Aeneas fra gli anni 2011 e 2014, in risposta a una crescita di piccole imbarcazioni che arrivavano sulle coste calabresi e pugliesi dall’Egitto e da altri paesi. Le operazioni di Aeneas già includevano l’identificazione e l’arresto dei capitani: e.g. il gruppo di migranti egiziani fermati come scafisti nel 2012, o l’arresto dell’equipaggio di una nave madre nel 2013 (operazione Never More).

Sequestro di una nave madre nel 2012, nell’ambito dell’operazione ‘Never More’. Fonte: Guardia di Finanza.

In questi anni i cittadini egiziani rappresentano un’alta percentuale delle persone arrestate dopo gli sbarchi in Italia; va notato però che anche le organizzazioni in Libia spesso hanno utilizzato capitani egiziani. In fatti, nell’estate del 2013, la Procura Antimafia catanese ha iniziato una serie di indagini sugli arrivi di siriani sulla costa siracusana, anche in seguito al naufragio del 10/08/2013. L’indagine ha culminato nell’arresto di varie ‘navi madri’ e circa 50 cittadini egiziani che sono stati accusati di aver svolto vari ruoli sia al mare che nel territorio italiano (operazione ‘Markeb el Kebir’).

In questi casi dagli anni 2013/2014 contro gli equipaggi delle navi madri egiziane, gli scafisti sono stati accusati anche del reato di associazione per delinquere (anche se non è a nostra conoscenza ancora come sono finiti i processi e se l’accusa dell’art. 416 abbia retto), innescando un nuovo livelli di intervento dalla direzione antimafia.

Queste operazioni di polizia sono poi confluite dentro Mare Nostrum a partire dal 2013 per proseguire con l’approccio al livello europeo e il coinvolgimento sempre maggiore di Frontex, con Triton 2015–2017 e Themis 2018–2021 che continuano tutt’ora.

Il naufragio del settembre 2016, avvenuto a poca distanza dalla costa egiziana, ha causato il cambiamento più grande nella rotta egiziana: in maniera paragonabile alle reazioni europee per i naufragi del 3 ottobre 2013 e dell’aprile 2015, in Egitto la morte di circa 600 passeggeri cinque anni fa ha scatenato una caccia allo scafista. Nell’ottobre 2016 contro il traffico di migranti è stata introdotta una nuova legge, insieme all’intensificazione di operazioni di polizia. Anche se rappresenta un’esagerazione, il governo egiziano e Frontex rivendicano oggi che non c’è stata una partenza di un’imbarcazione dall’Egitto sin dal settembre del 2016. Infatti, il numero di fermi di cittadini egiziani effettuati in Italia che abbiamo riscontrato nella stampa sembrano confermare questo punto di svolta:

​2. La rotta algerina

La rotta algerina collega il paese nordafricano con l’isola italiana della Sardegna. A differenza della rotta egiziana, la rotta algerina non solo continua ma sono anche aumentati gli arrivi negli ultimi anni (1.390 persone nel 2020). I casi di fermi di capitani, però – per quanto sappiamo – sono pochissimi: solo nel 2015 la cronaca riporta una serie di piccoli arresti.

In un paio di casi si tratta di persone già residenti sull’isola o che vi risiedevano nel passato, anche se non sempre. Uno sbarco di questo periodo in particolare ha dato luce all’operazione di polizia Arruga che ha portato ad una serie di arresti di cittadini algerini nel 2017 e altri – inclusi italiani e nigeriani – alla fine del 2018. L’operazione, però, mette insieme vari reati – favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, sfruttamento, traffico di stupefacenti – anche se il ruolo dello ‘scafista’ viene citato.

In generale, però, possiamo dire che lungo la rotta fra l’Algeria e la Sardegna non ci sia stato un numero significativo di fermi di capitani, probabilmente come conseguenza del fatto che si tratta per lo più di piccole imbarcazioni auto-organizzate da gruppi di amici e conoscenti. Nei casi in cui queste imbarcazioni vengono intercettate, la polizia riconosce l’assenza di fatti contestabili penalmente, oppure non ci sono modi per individuare i responsabili. Nei casi in cui la polizia chiede chi ha guidato, i passeggeri rispondono (onestamente) che ciascuno ha preso il timone per un periodo del viaggio.

Una vicenda diversa, ma che notiamo qua, è quella legata alle carceri della Sardegna, che ospitano un’altissima percentuale di detenuti stranieri, che vengono spostati sull’isola dove c’è una capacità carceraria troppo grande rispetto alla popolazione sarda. Da qui, i detenuti spesso vengono attualmente accompagnati al CPR di Macomer per il rimpatrio. Notiamo in tale riguardo un caso dell’anno scorso di un cittadino afgano che è stato rintracciato nel CPR e poi condotto in una delle carceri sarde per scontare una pena di 4 anni per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

​3. La rotta libica

La rotta libica prende un posto centrale nel discorso sulla criminalizzazione della migrazione, e tende quindi di essere maggiormente compresa. Ciò detto, qua sottolineiamo alcuni aspetti delle partenze, le modalità dell’organizzazione e della criminalizzazione che forse vengono sottovalutate. In primis, tracciamo qui come gli sviluppi della modalità delle indagini si sia trasformato dopo i naufragi più significativi degli ultimi anni, e non soltanto in reazione al cambiamento nel modello commerciale del traffico di persone.

​2007 – 2013

L’accordo italo-libico del 2007 – che è durato essenzialmente fino alla guerra civile – rivendicava il pattugliamento del confine come modo per fermare le imbarcazioni degli ‘smugglers’. Poco prima dell’accordo è stata avviata la prima missione di Frontex nel Mediterraneo, l’Operazione Nautilus, 2006–2009, un pattugliamento del canale di Sicilia organizzato da Frontex in risposta al cambiamento della rotta migratoria (e dei trafficanti) dalle isole Canarie verso un maggiore approdo a Lampedusa e in Sardegna. L’operazione, però, non aveva un focus sulla criminalizzazione. In questo periodo si nota la prevalenza nelle partenze del tipo ‘capitano-migrante di necessità’, cioè i capitani che cercano di migrare in Europa e sono essenzialmente costretti a guidare dalle condizioni della partenza.

Il naufragio del 10/04/2011, all’inizio della guerra civile libica, in cui 63 persone sono morte a seguito dell’abbandono dell’imbarcazione in mare da parte degli Stati europei, non ha portato all’apertura delle indagini nei confronti dei sopravvissuti, né purtroppo delle autorità europee colpevoli di omissione di soccorso.

​2013 – 2015

È stato invece il naufragio del 3/10/2013, in cui sono morte 366 persone, a portare a una forte attenzione mediatica e politica, con due conseguenze importanti: l’inizio dell’operazione Mare Nostrum, e il processo ai due ‘scafisti’ per omicidio plurimo. Il comunicato del Presidente della Commissione Europea nei giorni seguenti ha promesso di “rafforzare la nostra azione congiunta per contrastare i criminali e i trafficanti di persone”. Potrebbe essere in questo contesto che, nel novembre 2013, si è verificato un episodio in cui una nave militare italiana ha perseguito e sparato a un peschereccio di trafficanti e arrestato l’equipaggio.

Peschereccio sparato dalla marina militare, 2013. Fonte: Melting Pot.

Significativa è stata la decisione con l’operazione Mare Nostrum di portare tutti i migranti soccorsi nelle acque libiche in Italia, di fatto coinvolgendo le autorità italiane – e non maltesi o altre autorità – nelle indagini giudiziarie. Nel novembre del 2014, il Ministero dell’Interno italiano ha dichiarato che, nell’ambito della missione, 728 scafisti erano stati arrestati. Possiamo notare noi, dall’altro canto, che è nel maggio del 2014 – sempre durante il periodo di Mare Nostrum – che riscontriamo i primi casi di fermi di capitani che per necessità durante la traversata avevano preso in mano il timone, con l’arresto di sei cittadini gambiani a Messina.

Nancy Porsia ritiene, però, che anche prima dell’avvio di Mare Nostrum c’era stato un cambiamento nell’organizzazione della rotta libica. In reazione alla chiusura dei cantieri navali libici (sotto la pressione della guerra civile), gli organizzatori dei viaggi hanno preferito riutilizzare delle barche. Questo è stato, secondo Porsia, il motivo per l’utilizzo delle navi madri che portano piccole imbarcazioni fatiscenti non lontane dalla costa libica per poi essere soccorse, e non l’avvicinamento delle navi di soccorso a causa dell’avvio della missione Mare Nostrum.

Con l’inizio dell’operazione Triton, e la conclusione di Mare Nostrum, il numero di navi è stato notevolmente ridotto e la zona di pattugliamento limitata; questo, però, non sembra aver portato effetti significativi sui metodi dell’organizzazione delle partenze, né sull’approccio giudiziario (anche il Ministro dell’Interno di allora ha sottolineato che la nuova operazione avrebbe mantenuto lo stesso approccio).

​2015 – oggi

È stato invece il naufragio del 18/04/2015 che ha, di nuovo, spinto le organizzazioni governative internazionali a contrastare con ancora più intensità gli ‘scafisti’ e i trafficanti. Un mese dopo è stata lanciata l’operazione EunavforMed da parte del Consiglio dell’Unione Europea. Una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nell’ottobre 2015 ha chiesto agli stati “con la necessaria giurisdizione secondo le leggi internazionali e nazionali, [di] indagare e perseguire le persone responsabili” per il traffico di migranti via mare. L’area operativa di Triton è stata, inoltre, estesa – anche se non fino ai limiti precedenti di Mare Nostrum.

L’Operazione Sophia di Frontex – avviata nel giugno 2015 – è stata ancora più esplicita nel volere “interrompere il modello d’affari” dei trafficanti libici. Fra il 2015 e il 2017 una serie di iniziative sono state avviate a livello europeo per portare avanti questa indicazione. Importante qui è la fase ‘2A’ dell’operazione Sophia avviata nell’ottobre del 2016, che ha impiegato una flotta militare europea in acque internazionali per contrastare e arrestare gli ‘smugglers’. L’operazione ha incluso non solo una collaborazione con la Direzione Antimafia Italiana ma ha anche impiegato i ‘Frontex Liason Officers’ per aiutare i comandanti delle navi dei singoli Stati – in questo caso, dell’Italia – a fermare e processare gli ‘smugglers’. Secondo una giudice di Catania intervistata nel 2016, i Liason Officers sono stati presenti anche per risolvere il problema della giurisdizione in quanto solo una delle navi di Frontex batteva bandiera italiana, nonostante quasi tutti i fermi dovessero poi avvenire nei porti italiani.

Fonte: Flickr

Durante il periodo dell’operazione Sophia le navi madri hanno continuato a non uscire dalle acque libiche. Frontex stessa ritiene che le barche piccole, portate nelle acque internazionali dalle navi madri libiche, siano state guidate per lo più in questo periodo da “pochi migranti che vengono istruiti su come condurre la navigazione tramite GPS e fare la chiamata di emergenza con un telefono satellitare, prima che le barche siano fatte partire, e poi l’imbarcazione di migranti viaggia da sola verso la zona programmata per fare partire la chiamata”. Infatti, in questo periodo si riscontrano anni di fermi, di regola, di tre persone per ogni piccola imbarcazione: la persona addetta alla bussola, il timoniere e il comunicatore al telefono Thuraya, a cui sono stati delegati i compiti dai trafficanti “proprio per evitare di essere arrestati”, come ha riconosciuto l’ammiraglio della marina militare. Inoltre, nei report delle Nazione Unite del 2019 e del 2020, Frontex sostiene che questo modello d’affari dei trafficanti in mare sia rimasto sostanzialmente invariato: l’utilizzo dei migranti stessi come equipaggio, con poca istruzione e benzina appena sufficiente per arrivare oltre le 12 miglia dalla costa libica. La costanza di questa modalità viene anche citata in tribunale come fattore contro il riconoscimento dello stato di necessità, in quanto essendo un’informazione molto diffusa fra i migranti stessi, indicherebbe una situazione di necessità evitabile e quindi non utilizzabile come giustificazione per aver commesso il reato).

Nel marzo 2019, le operazioni navali di Eunavformed e Sophia sono state sospese, e l’intera operazione è stata spostata nello spazio aereo; a febbraio 2020, l’operazione è stata ufficialmente chiusa. È stata avviata una nuova operazione marittima che ha l’obiettivo principale di combattere il contrabbando di armi verso la Libia, e solo secondariamente contrastare i trafficanti. Con lo spostamento delle operazioni di Frontex allo spazio aereo, la possibilità di intervenire direttamente nell’identificazione degli equipaggi in mare è diminuita radicalmente.

L’atteggiamento delle Nazione Unite nei confronti del fenomeno libico rimane, però, inalterato: la risoluzione del Consiglio di sicurezza del 2020 condanna nuovamente tutti gli atti di ‘smuggling’ e traffico dei migranti, “che mettono in pericolo le vite di centinaia di migliaia di persone.”

​4. Le rotte adriatica e ionica

Se la rotta libica è stata oggetto di moltissima attenzione e analisi in questi anni, è nostra convinzione che lo sia stato a discapito della rotta orientale, quella che concerne le coste adriatiche e ioniche.

Non solo è una rotta attiva fin dagli anni ‘90, ma è anche il luogo della genesi di vari paradigmi polizieschi che riguardano la criminalizzazione di migrazione odierna. È caratterizzata da diversi fattori geopolitici e storici che la portano di essere la porta più costante per l’accesso marittimo dei migranti provenienti dal medio oriente e dall’Asia centrale all’Italia. Un primo fattore è la prossimità della costa italiana ai due paesi extracomunitari sull’altro lato del mare adriatico, cioè Albania e Montenegro: è stato, infatti, durante il periodo di immigrazione albanese degli anni novanta che la parola ‘scafista’ si è popolarizzata. La rotta marittima porta quindi da questi due Paesi fino alla Calabria o alla Puglia, una rotta usata storicamente per il contrabbando in generale.

Un secondo aspetto, ugualmente importante, è la vicinanza alla Grecia e, relativamente, alla Turchia; da tanti anni ci sono casi di persone che arrivano da questi due Paesi su barche di vario tipo, soprattutto in seguito alla guerra siriana. Prevalentemente si tratta le barche a vela, di fibreglass, ad alto costo e con pochi passeggeri. Qua si riscontra un rete di gruppi collegati fra di loro, con basi in Turchia, in Grecia e sulla costa italiana, un’organizzazione che si evince anche nel fermo di un cittadino greco che ha portato un gruppo di Somali e Pakistani a Novaglie, prima di cercare di ripartire. Le indagini e fermi di ‘smugglers’ attivi in Grecia che facilitano le partenze verso l’Italia, sono state rese pubbliche da Europol dal 2019.

Un aspetto che unisce tutte e due le rotte è la forte presenza di timonieri dell’Est Europa. Già nel 2002, poco dopo il patto di Palermo, troviamo una polemica fra la DDA e il Tribunale di Lecce sulla severità con cui agire nei confronti degli scafisti albanesi, in connessione ad un naufragio del 11 marzo di quell’anno. Ma è nel 2009 che gli arrivi attraverso l’adriatico aumentano notevolmente, e subito si nota che i capitani vengono fermati – probabilmente in connessione alle operazioni Frontex avviate prima nel Mediterraneo occidentale o poi centrale. L’incremento di arrivi ha fatto sì che Frontex lanciasse un’azione congiunta con la Guardia di Finanza nel 2011. Vedi, e.g. il report della capitaneria di Gallipoli (Puglia), che già nell’anno 2012 ha indicato 300 persone migranti soccorse e l’arresto di dieci ‘scafisti’. Nel 2013/14, secondo l’allora procuratore di Lecce, c’è stato un calo degli sbarchi dall’Albania, poi ripreso nel 2015. L’impegno di Frontex nel Mare Adriatico è stato costante, nella co-gestione delle operazioni (Aeneas 2011–2014, Triton 2015–2017, Themis 2018–2021) insieme alla marina militare e alla Guardia di Finanza, la quale si occupa per lo più della sorveglianza aerea. La Guardia di Finanza calabrese ritiene attualmente di identificare i capitani in più del 90% degli sbarchi, rivendicando che i fermi abbiano un “effetto dissuasivo”.

Barca sequestrata vicino a Bari, 2012. Fonte: Guardia di Finanza.

Fra i tantissimi cittadini ucraini, ci sono Y. B., arrestato nel 2014, condannato a 9 anni, partito dalla Turchia, che aveva fatto salire a bordo i passeggeri in Grecia; tre ucraini che hanno portato nel porto a Siracusa 50 profughi iracheni nel 2015; due ucraini intercettati da Frontex nel 2017 vicino al Salento, con 72 persone a bordo; due uomini e una donna, tutti di cittadinanza ucraina, arrestati nel 2019 per aver portato 45 cittadini iracheni e iraniani nel golfo di Taranto; due ucraini – di cui uno risultato positivo al Covid – arrestati per aver portato al porto vicino Augusta una cinquantina di iraniani e iracheni dalla Turchia. I casi sono tantissimi, e continuano a crescere settimanalmente. Nel 2018, la polizia ucraina ha iniziato un’indagine che, secondo loro, è riuscita ad individuare degli organizzatori dei viaggi, informazione basata sulla testimonianza di un pentito.

Oltre agli ucraini possiamo notare anche la presenza di imputati di altri paesi dell’Europa Orientale: e.g. due russi sono stati condannati a quattro anni di carcere ciascuno nel 2020; e possiamo osservare anche persone provenienti dalla Georgia, Kazakistan, Kyrgyzstan, Lettonia, Moldavia e Serbia. Il racconto nella sezione precedente di N. spiega bene la modalità con cui alcuni imputati vengono raggirati nell’organizzazione dei viaggi. Altre persone, invece, sono consapevoli non solo del compito che gli viene affidato, ma anche delle possibili conseguenze penali.

In questa categoria possiamo mettere, probabilmente, una seria di casi di cittadini italiani. Certamente in questi casi non si tratta della criminalizzazione di migranti, ma le vicende sono da includere per capire meglio le dinamiche sia dell’organizzazione dei viaggi che della criminalizzazione degli ‘scafisti’. Nel 2014 è stata avviata l’operazione ‘Sestante’ della Guardia di Finanza di Lecce, che si focalizzava sul cambiamento di attività di gruppi organizzati di contrabbandieri pugliesi – che agivano insieme a soggetti in Montenegro, Grecia e Albania – dallo spaccio di sigarette contraffatte al favoreggiamento dell’immigrazione. L’operazione si è concentrata su sei sbarchi osservati fra agosto 2014 e giugno 2015 e ha portato a tredici arresti nel 2019, in collaborazione con la Direzione Distrettuale Antimafia (DDA), Europol e la Polizia e magistratura Greca; la prima condanna è stata decisa ad aprile di quest’anno: nove anni per un cittadino italiano. Importanti sono stati due fermi di cittadini italiani nel 2015, per aver portato dalla Grecia 21 cittadini siriani al lago di Otranto e 28 siriani e iracheni a Torre Canne. L’arresto ha poi condotto all’operazione ‘Caronte’ e alla successiva accusa, nel 2017, contro dieci cittadini italiani, un cittadino greco e un cittadino iracheno residente in Grecia. Nel 2016, invece, sono stati arrestati due pugliesi, condannati a 4 anni 9 mesi per aver portato 15 somali a Otranto. Va notato che uno di loro era stato arrestato nel 2012 con l’accusa di rapina e, anzi, tra questi alcuni imputati sono figure note nell’area della Sacra Corona Unita, la mafia pugliese.

Questo non vuol dire, però, che l’intera operazione di immigrazione irregolare lungo la costa adriatica possa essere definita come un affare della mafia italiana: troviamo anche fra gli imputati persone di nazionalità che di solito arrivano in Italia al termine di un percorso migratorio: e.g. afgani, iraniani e siriani – e questi solamente fra i fermi dell’ultimo anno. Anche la Guardia di Finanza ammette che i capitani includono sia il tipo “dell’organizzazione” che il tipo “migrante-mercenario”.

All’inizio di quest’anno due indagini della Polizia hanno cercato di svelare e smantellare l’organizzazione della rotta adriatica: una diretta dalle Procure di Catania, Bari e Genova che include una vasta gamma di persone (scafisti, un CAF e un impiegato della prefettura), mentre un’altra indagine diretta dalla DDA riguarda due cittadini ucraini, arrestati originalmente dopo uno sbarco nell’agosto 2019 e tutt’ora in carcere, accusati, in seguito alla lettura dei loro messaggi telefonici, anche di associazione a delinquere, traffico di migranti e tratta di persone.

5. La rotta tunisina

La rotta tunisina pone ulteriori riflessioni collegate allo spettro di ‘difendibilità’ rispetto alle persone fermate per aver guidato le barche in partenza. I fermi avvengono spesso sul lato tunisino – molto di più che nelle altre rotte – anche se varie fonti ritengono che la guardia costiera tunisina blocchi prevalentemente le partenze di barche caricate con passeggeri non tunisini, lasciando invece passare i propri connazionali.

I casi di fermi di capitani tunisini possono essere rintracciati negli anni, ma si nota un incremento dal 2011, durante la rivoluzione tunisina. A causa degli accordi fra Italia e Tunisia che facilitano il rimpatrio dei migranti tunisini se intercettati poco dopo l’arrivo, coloro che sono identificati come parte dell’equipaggio spesso vengono rimpatriati insieme ai passeggeri, apparentamene senza essere sottoposti a un processo penale, come ci è stato raccontato da un avvocato dell’Agrigentino. In altri casi, l’imputato viene scarcerato dopo circa un anno di misura cautelare e il processo va avanti anche se si è poi allontanato dal territorio italiano. In almeno un caso, però, del 2015, il procedimento penale si è concluso, dopo solo cinque mesi.

Una presunzione frequentemente utilizzata dalla polizia per ‘individuare’ ’ l’equipaggio tunisino in questi casi è l’identificazione delle persone già espulse dall’Italia anni prima, evidenza dalla quale la polizia deduce (più o meno correttamente) che la persona ha fatto da spola fra le due coste. In alcuni casi si tratta di persone con tantissimi ordini di espulsione, in almeno un caso del genere, l’imputato è poi stato assolto dopo tre anni di carcere per uno scambio d’identità.

In tanti casi si rileva l’utilizzo delle navi madre da parte delle organizzazioni tunisine, come nel caso del Hadj Mhamed, il cui l’equipaggio – composto da ben 22 persone – è stato fermato vicino Lampedusa a luglio 2020 e undici persone sono state portate in carcere. Altre volte – che apparentemente rappresentano i casi più frequenti – piccoli pescherecci vengono usati per un solo viaggio, guidati da giovani migranti pescatori che viaggiano gratis (per loro pagano o l’organizzatore del viaggio oppure gli altri passeggeri). In tantissimi casi le barche arrivano autonomamente sulle coste siciliane senza essere intercettate dalle autorità, i cosiddetti sbarchi ‘fantasma’, come abbiamo visto anche nel caso della rotta algerina. Come in un caso della fine del 2019, continua anche la modalità del ‘fare da spola’, i capitani cercano di tornare in Tunisia dopo di aver lasciato i passeggeri sulla costa sicula (in questo caso, poi denunciato da un peschereccio italiano lì vicino).

La criminalizzazione dei pescatori tunisini che si trovano nella situazione, invece, di dover rispettare la legge del mare e salvare le vite delle persone – sempre sulla rotta tunisina – si verifica da diversi anni. Il caso dei due pescherecci fermati nel 2007 per aver salvato 44 persone al mare ha portato a una condanna a 2 anni 6 mesi di carcere, prima di essere assolti in appello nel 2011. Significativo anche il caso dei sei pescatori – incluso il presidente dell’associazione dei pescatori di Zarzis – fermati per aver salvato 14 persone in mare nel 2018: hanno passato un mese nel carcere di Agrigento, prima di essere espulsi; il caso è stato poi archiviato. Infine segnaliamo il caso di Vincenzo Partinico, pescatore italiano, che nel luglio di quest’anno ha salvato le vite di 24 persone, un atto di eroismo per il quale ha ricevuto una denuncia per oltrepassamento del confine marittimo.

Sequestro di barche sulla rotta tunisina nell’ambito dell’operazione ‘Scorpion Fish’. Fonte: Guardia di Finanza.

Vincenzo Partinico, tuttavia, non è l’unico nome italiano nei fascicoli: come nella rotta adriatica, la rotta tunisina è utilizzata sia per la migrazione di persone che per il contrabbando di sigarette e altro, con probabili connessioni con la mafia siciliana. Riscontriamo dei casi di imputati condannati per una serie di reati, cioè per aver guidato barche che hanno fatto entrare sia beni illeciti che persone migranti (a differenza dalla rotta adriatica). Nel giugno 2017, la Guardia di Finanza ha disposto un fermo per 15 persone di nazionalità tunisina e italiana, che ha portato a 12 condanne l’anno successivo, per traffico di droga e di persone. Il caso – che fa parte dell’operazione ‘Scorpion Fish’ – include Hamrouni Chiheb, che è poi morto in carcere all’inizio del 2021. Inoltre, va segnalato che il cittadino tunisino ritenuto capo della banda – con base a Firenze ma ora in carcere a Palermo – ha subito ripetuti maltrattamenti in carcere. Con il successo della prima operazione, la polizia ne ha lanciata un’altra – ‘Scorpion Fish 2’ – con 13 fermi emessi nell’aprile 2018. Il sospetto diffuso dal caso ha anche portato un migrante tunisino ad essere accusato di ricoprire un ruolo nell’organizzazione semplicemente perché ha lo stesso nome di uno degli imputati: ha passato vari anni in carcere prima di essere assolto. L’esistenza di una terza operazione, ‘Scorpion Fish 3’, è stata diffusa dalla stampa in relazione alla morte di Chiheb, descritto come un pentito nel caso.

In parallelo troviamo altre due operazioni della polizia collegate: nell’operazione ‘Sea Ghosts’, avviata nel 2016, cinque sbarchi ‘fantasma’ sono stati intercettati, con l’arresto di 17 persone, inclusi sei ‘scafisti’; mentre due sbarchi nel 2017 hanno portato all’operazione ‘Caronte’ e ai fermi di 3 italiani e uno scafista tunisino, condannato nel 2021 a sei anni e sei mesi di carcere.