- La richiesta di asilo
- Dal carcere al cpr
- Disagio economico e sociale
- Scarcerazione e ri-carcerazione
- Assoluzione e riparazione
In quest’ultima sezione delineiamo i problemi che deve affrontare fuori dal carcere chi viene soltanto accusato o anche condannato per aver guidato la barca. Il titolo riporta un punto interrogativo perché la libertà, purtroppo, non viene riacquistata una volta fuori dal carcere: come ogni migrante che arriva in Italia, essi devono affrontare non solo tutti i problemi connessi a leggi di settore spesso razziste e oscurantiste, ma anche altre sfide legate al reato del quale sono stati accusati.
1. La richiesta di asilo
La convenzione di Ginevra del 1951, nel disciplinare le forme di protezione internazionale, stabilisce le cause di esclusione al suo riconoscimento. L’UE ha recepito quanto stabilito nella Convenzione attraverso la direttiva del 2004/83/CE, attuata in Italia nel 2007 con il decreto legislativo n. 251. Fra altri motivi (p.e. crimini di guerra) viene previsto che se il soggetto ha commesso reati contro l’umanità” può essere escluso dalla protezione internazionale. Lastessa legge del 2007 ha anche stabilito che la condanna per alcuni reati, considerati particolarmente gravi dall’ordinamento italiano, è ostativa allo status di rifugiato e alla protezione sussidiaria in quanto indice del fatto che il cittadino straniero rappresenti “un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica.” Nel 2009 il ‘pacchetto Sicurezza’ (promosso dal Leghista Roberto Maroni) ha inserito a questa lista di reati l’articolo 12 del TUI nella forma aggravata; nel 2018 il nuovo Decreto Sicurezza di Salvini ha modificato il richiamo al reato di favoreggiamento, ricomprendendo tutte le ipotesi di art. 12, anche senza aggravanti.
Alla luce di questo impianto normativo viene fuori che una persona che è stata condannata come ‘scafista’ ha grandissime difficoltà nella richiesta della protezione internazionale. Esemplare il caso di un cittadino Senegalese che, durante la sua audizione davanti la Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale, è stato informato che, nonostante la vicenda di violenza descritta nel suo paese, la sua condanna per favoreggiamento all’ingresso clandestino “comporta, secondo la legge in vigore, l’esclusione dal riconoscimento della protezione internazionale.”
Ciò detto, questo non vuol dire né che queste persone non possano ricevere una forma di protezione, né che la protezione internazionale sia del tutto preclusa.
In primis, la condanna è ostativa allo status di rifugiato e alla protezione sussidiaria; non è ostativa alla protezione speciale (ex protezione umanitaria). Queste forme di protezione comunque possono essere riconosciute a causa del pericolo che potrebbe subire il soggetto in caso di rimpatrio. Un buon esempio è il caso di un cittadino maliano, albino, arrestato come scafista; all’uscita dal carcere è stato riconosciuto la protezione umanitaria visto l’ostatività del reato alla protezione internazionale, nonostante il suo caso integrasse tutti i requisiti necessari per vedersi riconosciuto lo status di rifugiato.
E’ importante capire che questa norma non si limita a condizionare la vita fuori dal carcere, ma influenza anche le scelte processuali. Prendiamo un esempio: il caso di Omar e Mustafa (tutti gli elementi di questo caso sono basati su una vera vicenda, anche se i nomi e nazionalità sono stati cambiati per motivi di privacy). I due migranti iracheni sono stati arrestati come i capitani di una barca nel 2019. Vengono processati insieme e, nonostante vari fatti che evidenziano uno stato di necessità, sono condannati in primo grado alla pena di 5 anni di reclusione. In appello, hanno dovuto fare una scelta insieme ai loro avvocati: o accettare la condanna, rinunciare a dimostrare la propria innocenza per cercare di ottenere una riduzione della pena, oppure contrastare la condanna, aprendo la possibilità di essere assolti, ma anche di vedersi confermare la medesima pena di 5 anni. La pena in appello potrebbe essere ridotta a meno di tre anni; avendo già trascorso 2 anni in custodia cautelare in carcere, la riduzione potrebbe significare un’uscita imminente. Allo stesso tempo, accettare la condanna comporterebbe rientrare tra le ipotesi ostative al riconoscimento della protezione internazionale. Visto che si tratta di cittadini iracheni, notoriamente inespellibili, non ci sono molti dubbi che a seguito della scarcerazione possano richiedere e ottenere un permesso di soggiorno per protezione speciale. Nonostante ciò, ci sono motivi per preoccuparsi: il progetto migratorio di tutti e due era quello di proseguire per la Germania, e uno di loro ha moglie e figli ancora in Iraq per i quali vorrebbe chiedere il ricongiungimento familiare (più facile da ottenere se si è titolari di protezione internazionale). Questo progetto sarebbe troncato dal rifiuto dello status di rifugiato, o, comunque, diventerebbe molto più difficile e non a breve termine. Gli appellanti, quindi, sono stati posti davanti ad una scelta di strategia processuale e difensiva che vede la libertà personale contrapporsi ai diritti connessi al riconoscimento della protezione internazionale. Alla fine, questi imputati hanno optato per una riduzione della pena.
In secondo luogo, è, inoltre, possibile che qualcuno condannato come ‘scafista’ venga riconosciuto rifugiato. In una sentenza del 2019, ad un cittadino ucraino è stato riconosciuto lo status nonostante egli avesse una precedente condanna per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: il giudice motiva sinteticamente che la condanna penale “non può essere annoverato tra le cause di esclusione dello status di rifugiato tassativamente previste dall’art. 10” della legge del 2007 sopracitata.
2. Dal carcere al CPR
Un altro problema associato all’accessibilità della richiesta di asilo è la frequenza con la quale i detenuti stranieri, per ogni tipo di reato, vengono trasferiti nei Centri Permanenti per il Rimpatrio (CPR, ex-Cie) a fine pena.
Le difficoltà sono legate alla specializzazione degli avvocati che difendono queste persone. Spessissimo, l’unico difensore con cui un detenuto si interfaccia è un avvocato che si occupa per lo più degli aspetti penali. I detenuti stranieri, però, necessitano di un’assistenza legale anche per la richiesta di protezione internazionale e per il permesso di soggiorno e di un difensore che sia pronto a intervenire e a partecipare a eventuali udienze in caso di detenzione amministrativa nei CPR. Abbiamo rilevato che gli avvocati penalisti spesso non seguono i loro assistiti dal punto di vista amministrativo: perché non ne hanno le competenze, oppure perché hanno perso i contatti con loro non appena la condanna è diventata definitiva. Una mediatrice di MEDU descrive bene il possibile scenario:
“Ricordo un detenuto che aspettava la fine della condanna per prendere un caffè al bar di fronte al carcere. Durante gli anni dietro le sbarre ce l’ha messa tutta per essere una persona migliore una volta uscito dal carcere. Ha perfino conseguito l’attestato di licenza media. “Fuori ci vuole l’attestato”, diceva. Poi il giorno tanto atteso, camicia stirata, barba fatta e un sorriso sul viso. Ma ad attenderlo non c’era una seconda possibilità, ma una volante che lo accompagnava a un centro per il rimpatrio. Tutti meritano di essere ascoltati, tutti meritano di essere visti, tutti meritano una seconda possibilità.”
Il problema a monte è costituito dalla diversità di prassi seguite nelle diverse carceri: se la richiesta di protezione viene presentata durante il periodo di detenzione, c’è una possibilità che venga applicata la procedura accelerata senza una vera possibilità per l’avvocato di preparare bene il richiedente per l’audizione davanti la Commissione Territoriale. D’altro canto, se la domanda viene presentata solo dopo la scarcerazione, il richiedente arriva al giorno di uscita senza un permesso di soggiorno in mano e può essere portato in CPR, oppure lasciato in strada con una notifica di respingimento differito. Una soluzione spesso adottata è manifestare la volontà di presentare la domanda per protezione internazionale a fine pena, poco prima della scarcerazione.
Sul punto occorre fare una precisazione. Occorre distinguere la manifestazione di volontà di richiedere protezione internazionale presentata dallo straniero (spesso tramite avvocato) non ancora formalizzata, dalla formalizzazione della domanda di asilo in Questura mediante rilievi fotodattiloscopici cui consegue il rilascio di un permesso di soggiorno per richiesta asilo. L’ordinamento italiano stabilisce che, in entrambi i casi, e quindi anche qualora sia stata solamente manifestata la volontà di richiedere asilo senza che sia già avvenuta la formalizzazione della richiesta, lo straniero assuma lo status giuridico di richiedente asilo e sia, come tale, inespellibile. Tuttavia, può capitare che questa manifestazione di volontà non formalizzata venga ignorata, seppur illegittimamente, dalla Questura che, quindi, nega di fatto l’accesso alla possibilità di richiedere asilo. Quando, quindi, un capitano manifesta la volontà di richiedere asilo direttamente dal carcere deve “sperare” che gli venga riconosciuto lo status giuridico di richiedente di asilo e gli venga, quindi, permesso di entrare nel mondo di libertà senza ulteriori preoccupazioni giuridiche.
Questo, però, non sempre è possibile. Se alcune carceri – come quelle di Catania e Palermo – nel tempo hanno creato un iter che permette di manifestare la volontà per chiedere accedere alla protezione internazionale in modo abbastanza agevole, altre non sanno come accettare e procedere con le richieste asilo, anche quando i detenuti stessi cercano di presentare la domanda alla matricola.
Il caso di A. – al momento di scrittura trattenuto al CPR di Potenza – è indicativo. Entrato in Italia a fine 2017 e condannato per favoreggiamento all’ingresso clandestino, è stato trattenuto in CPR lo stesso giorno della sua scarcerazione dal C.C. Siracusa, nonostante abbia parenti regolarmente soggiornanti nel territorio italiano e abbia manifestato la volontà di chiedere asilo prima dell’uscita. Il trattenimento all’interno del CPR è stato convalidato non solo sulla base della condanna, ma anche perché il trattenuto non ha presentato la domanda precedentemente negli anni della sua detenzione: la motivazione è che la domanda viene ritenuta strumentale. Ma come abbiamo visto, ci possono essere vari motivi per i quali la domanda non è stata presentata prima, inclusi gli ostacoli del carcere stesso.
Le probabilità che A. verrà rimpatriato sono molto basse, visto i pochissimi rimpatri verso il Marocco. Ancora non abbiamo riscontrato casi di persone detenute come scafisti e poi rimpatriate a fine pena, tramite il CPR, anche se è probabile che succeda, soprattutto nei casi di cittadini ucraini e egiziani. E’ molto probabile, invece, che A. come tanti altri detenuti stranieri –Esemplare il caso di G.- passerà diversi mesi in detenzione amministrativa prima di essere lasciato in strada con un foglio di via in mano.
3. Disagio economico e sociale
Sin dal 2015, le associazioni antirazziste in Sicilia hanno iniziato a incontrare gli ‘scafisti’ per strada insieme a tante altre persone migranti che, per un motivo o per un altro, si sono trovate fuori dal sistema di accoglienza. In alcuni casi sono stati lasciati in strada dopo solo qualche giorno di detenzione, scarcerati dal Giudice per le indagini preliminari. Altre volte, però, sono persone che hanno passato 4 mesi o anche quattro anni in carcere, che si trovano poi in strada con un foglio di via – che ordina loro di uscire dal territorio italiano entro sette giorni – senza indicazioni su dove possano rivolgersi per un aiuto sanitario, legale, scolastico, sociale, ecc.
Per entrare nel sistema di accoglienza, un ex-detenuto con un foglio di respingimento, deve prima manifestare la volontà di protezione internazionale, impugnare l’espulsione (anche sulla base di questa volontà) per poi formalizzare la domanda di protezione e, potenzialmente, fare la richiesta alla Prefettura locale per inserimento nei centri di accoglienza straordinario. Con riferimento all’accoglienza, la possibilità di un inserimento dipende molto dalla disponibilità di posti concreti nei centri della provincia, e anche dalla disponibilità del prefetto di evadere tali richieste. Negli ultimi anni abbiamo notato che l’inserimento è diventato più facile, visto l’abbassamento del numero di persone ne sistema di accoglienza in generale. Nel caso di persone ancora con processi pendenti, in più di un’occasione il Prefetto di Palermo ha rifiutato la richiesta di inserimento sulla base delle accuse fatte nei confronti del richiedente asilo.
Molti, purtroppo, sono i casi a nostra conoscenza di persone che non hanno trovato una via che li abbia portati fuori da questa condizione di marginalizzazione ed esclusione. Esemplare il caso di O., cittadino senegalese nato nel’96, sbarcato a Palermo nel novembre 2016, ed arrestato per aver guidato una barca di legno dalla Libia verso Italia con 35 persone a bordo. Rimasto in carcere in attesa del processo, nel febbraio 2018 è stato condannato alla pena di due anni e quattro mesi, insieme a quattro co-imputati, con pena sospesa vista la sua giovane età (sotto 21 anni). All’uscita dal carcere, gli è stato notificato un decreto di espulsione. Dopo aver nominato un difensore, è riuscito ad impugnare il decreto, ed il giudice ha accolto il ricorso. Nel frattempo, però, O. è rimasto in strada, senza una rete di sostegno. Nonostante in carcere avesse lavorato e si fosse impegnato nello studio – ha imparato bene la lingua italiana – non aveva trovato un lavoro restando privo di mezzi di sostentamento. Così è finito dentro i circuiti dello spaccio di droga, sia per motivi economici che per far fronte alla propria solitudine e mancanza di relazioni. Dopo due anni di dipendenza, elemosina e sfruttamento, è stato coinvolto in una rissa e riportato in carcere, dove permane attualmente, e dove probabilmente rimarrà fino al 2028.
L’esempio di O. è estremo, ma racchiude elementi di tante altre situazioni più diffuse: quella di H., gambiano, condannato alla pena di cinque anni dal Tribunale di Messina in seguito a un patteggiamento, poi lasciato in strada con un foglio di via e, non molto dopo, caduto in una dipendenza dal crack. Un altro caso è quello di M., che ha trascorso alcuni giorni in carcere nel 2016, ed è tutt’oggi in attesa della definizione del processo per l’accusa di favoreggiamento. Dopo cinque anni, l’attesa riguarda anche la definizione del procedimento civile relativo alla domanda di protezione internazionale. In tutti questi anni M. è rimasto sempre fuori dal sistema di accoglienza e privo di un permesso di soggiorno per richiesta asilo a causa di una prassi illegittima adottata dalla Questura.
C’è anche la storia di A., guineano, arrestato nel 2015, poi assolto e scarcerato dopo tre anni. Quando è uscito dal carcere è rimasto in strada, fuori dal sistema di accoglienza, e anche impossibilitato dalla richiesta asilo per la gravità delle accusa (che andavano oltre l’art. 12); la stessa settimana che è arrivata la sentenza di appello che confermava l’assoluzione, è stato arrestato per spaccio di sostanze stupefacenti e condannato ad 1 anno e 6 mesi di reclusione.
È significativo il fatto che non sono solo le condanne per il reato di favoreggiamento a comportare l’esclusione sociale delle persone, ma anche e, soprattutto, la vicenda amministrativa che segue questo tipo di processi. Le persone che sono state assolte – delle quali parleremo di seguito – quasi sempre soffrono lo stesso destino di quelle che sono state condannate: un periodo di detenzione, lungo o breve che sia, il più delle volte un lungo periodo in strada, fuori dal sistema di accoglienza e la fatica delle sfide economiche e personali che accompagnano l’esclusione dal sistema di protezione sociale. Queste problematiche indubbiamente sono comuni alle vite di tantissime persone che sbarcano in Italia, vittime di un sistema razzista che ostacola la libertà di movimento e, coscientemente o meno, genera un esercito di ‘invisibili’ che vengono sfruttati dal sistema economico europeo. Le persone che arrivano via mare, che entrano nel sistema di accoglienza italiano, e che ne escono con uno status legale, valorizzate nelle proprie competenze e preparate per sopravvivere al libero mercato, sono davvero poche. Coloro che iniziano i loro giorni in Italia in carcere, passando attraverso processi, si ritrovano in strada in una situazione di maggiore e grave svantaggio. In questo senso, va sottolineato che la criminalizzazione dei cosiddetti scafisti rappresenta un aspetto importante del fallimento delle politiche migratorie europee a causa delle quali migliaia di persone perdono la vita in mare. Inoltre questo processo di criminalizzazione, ha un impatto devastante sulla vita delle persone accusate che rovina le opportunità e le speranze, anche quando le accuse non si traducono in una condanna. Anzi, spesso le opportunità vengono precluse molto prima dell’emissione di una qualsiasi sentenza.
4. Scarcerazione e ri-carcerazione
Abbiamo parlato nelle sezioni precedenti della detenzione, dei problemi legati alla fine della pena, e della vita dopo la scarcerazione. Come accennato, però, le sfide della vita fuori dal sistema di accoglienza toccano anche tutti quelli che magari non hanno vissuto la detenzione carceraria, o l’hanno vissuta solo brevemente, e rimangono in attesa del processo. Infatti, la scarcerazione può essere eseguita, a seguito delle decisioni dei giudici, in vari momenti dell’iter processuale, che esamineremo uno per volta.
La prima possibilità è la scarcerazione ordinata dal GIP in fase di indagini preliminari. La revoca della misura cautelare in carcere può essere disposta per il venir meno delle esigenze cautelari quali il pericolo di inquinamento delle prove, il pericolo di fuga, o il pericolo che possa ricommettere lo stesso reato.
Questo è il caso di quattro persone sbarcate nel 2016 ed ancora in attesa della definizione del processo di primo grado. Ci si chiede perché un processo può durare cinque anni, lasciando queste persone in uno stato di limbo, cioè in costante attesa di una decisione così importante per il loro futuro. La risposta è che la priorità nei casi penali è data giustamente ai processi in cui gli imputati sono detenuti, per non prolungare la loro detenzione, potenzialmente ingiusta. Sarebbe meglio, chiaramente, se il sistema giudiziario italiano non dovesse fare scelte del genere, rinviando alcuni processi di anno in anno. Va però segnalato che per questo stesso motivo l’ordinamento penale italiano prevede l’istituto della prescrizione, per il quale dopo minimo sei anni (oppure dopo gli anni equivalenti al massimo della pena se superiore ai sei anni), il tempo per giungere a una decisione scade ed il reato si estingue. Non abbiamo ancora avuto riscontro di procedimenti per favoreggiamento in cui il reato si è estinto per prescrizione trattandosi di tempi molto lunghi vista l’entità della pena prevista per questo tipo di reati.
Un’altra possibilità di scarcerazione si può presentare a seguito di un’assoluzione in primo grado, anche se il giudizio non è ancora definitivo. In un caso – che, essendo ancora aperto, non descriviamo nei dettagli per motivi di riservatezza – tutti gli imputati, dopo aver trascorso un lungo periodo in carcere, sono stati assolti in primo grado e rimessi in libertà. La procura ha appellato la decisione, e da due anni gli accusati sono liberi ma con una spada di Damocle pendente sopra le loro teste. Un caso simile è quello dei due imputati nel caso della Vos Thalassa: assolti in primo grado e scarcerati, la procura ha poi appellato le decisioni e – come evidenziato sopra – la Corte di appello ha condannato tutti e due a cinque anni di reclusione. Il caso è ora pendente innanzi la Corte di Cassazione, e la misura cautelare è stata sospesa in attesa del giudizio definitivo.
L’ordine di tornare in carcere è, purtroppo per molte persone, non solo una possibilità astratta, ma una concreta e pesante realtà. Esemplare il caso di C.S., arrivato nel 2017, condannato a 2 anni e 6 mesi di reclusione, poi scarcerato dopo un anno e sei mesi in attesa della decisione dalla Corte di appello. Otto mesi dopo – durante i quali aveva costruito una vita lavorativa e sociale fuori dalle sbarre – è arrivata la conferma della sentenza di condanna del giudice di appello e poi rapidamente l’ordine esecutivo di tornare in detenzione per scontare il residuo della pena. Ha dovuto quindi scegliere se evitare le forze dell’ordine, diventare latitante e quindi bloccare il suo percorso in Italia, oppure presentarsi alla polizia ed ottemperare all’ordine di carcerazione. Ha scelto la seconda opzione, e ha scontato la pena.
Diversa invece la vicenda di B., arrestato dopo il suo arrivo a Messina nel febbraio 2016. Dopo sei mesi in carcere, è stato assolto in primo grado. In seguito alla scarcerazione è riuscito ad essere inserito nel sistema di accoglienza e ha proseguito il suo progetto migratorio. Due anni dopo si è recato in Questura per nuovamente rinnovare il suo permesso di soggiorno per richiesta asilo: con sua grande sorpresa, gli è stata notificata una condanna di 2 anni e 6 mesi per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Era stato condannato in appello in assenza, e la sua avvocata non era riuscita a contattarlo dopo che era stato scarcerato. E’ stato portato in carcere, dov’è attualmente detenuto nel momento in cui si scrive.
Simile il caso di A.S., arrivato e arrestato a Ragusa nel novembre 2016, e condannato (con rito abbreviato) a 2 anni e 4 mesi nel febbraio 2018. E’ rimasto in stato di libertà durante il giudizio di appello, ma la sentenza è stata confermata nell’aprile del 2019, ed è diventata esecutiva nell’agosto del 2019. Quindi, quasi tre anni dopo il suo arrivo – tempo nel quale ha continuato il suo percorso in accoglienza – è stato arrestato dalla polizia giudiziaria e portato in carcere. Anche in questo caso, nel momento in cui si scrive, rimane detenuto.
L’ordine esecutivo non arriva sempre così tempestivamente. Un caso estremo è quello di X., giovane cittadino gambiano, arrivato ed arrestato – con due co-imputati – nel 2016. Nonostante la scelta del rito abbreviato, è stato condannato due anni dopo a cinque anni e sei mesi di reclusione, pena confermata in appello nel 2019. L’ordine di esecuzione, però, non è mai arrivato: X., ha già trascorso più di 2 anni in attesa che arrivi il momento in cui verrà obbligato a rientrare in carcere per scontare la pena. Nel frattempo, nonostante l’impossibilità di regolarizzarsi, ha continuato un percorso di integrazione in Italia, convinto di poter rimanere e costruire un futuro. La sua vita, però, è intrappolata in un limbo insopportabile, che indubbiamente ha avuto effetti anche sulla sua salute mentale.
5. Assoluzione e riparazione
Concludiamo la sezione con alcuni casi arrivati ad una conclusione positiva. Fra tutti i casi di ingiustizia, si trovano anche esempi di persone che sono state difese bene e sono riuscite ad essere assolte da tutte le accuse.
Le assoluzioni sono tante, e si riferiscono sia alle accuse riguardanti la semplice conduzione dell’imbarcazione che alle accuse comprendenti anche una serie di altri reati più gravi. Come i casi dei naufragi del 5 e 27 agosto 2015. Nel primo fra i cinque imputati, tre sono stati condannati definitivamente a 14 anni di reclusione, mentre due sono stati assolti. Le due assoluzioni sono arrivate a novembre del 2017 ed a novembre del 2018, cioè rispettivamente dopo due e tre anni di detenzione. Per entrambi, la procura aveva chiesto l’ergastolo.
Simile il caso inerente al naufragio del 27 agosto 2015, in cui 53 persone sono morte nella stiva della barca; sono state accusate sette persone, che sono state tutte assolte nel febbraio 2019, cioè dopo 3 anni 6 mesi di ingiusta detenzione.
È il caso di ricordare la vicenda del cittadino egiziano, già citata sopra, ora residente nel Regno Unito, assolto insieme a tre co-imputati nel dicembre 2015 dopo 6 mesi di detenzione. Altri quattro cittadini egiziani, arrestati dopo uno sbarco nel maggio 2015, sono stati assolti dopo tre mesi di detenzione, per mancanza di prove. Nuovamente, quattro cittadini – questa volta tutti provenienti dall’Africa occidentale – sbarcati sempre nel maggio 2015 sono stati giudicati nel novembre 2016, dopo più di un anno di detenzione: uno è stato condannato a quattro anni di reclusione, e gli altri tre assolti per mancanza di prove. Sempre per mancanza di prove, i quattro migranti arrestati dopo uno sbarco del luglio 2015 sono stati tutti assolti quasi cinque anni dopo – ma in loro assenza, visto che nel frattempo non erano stati detenuti e si erano tutti resi irreperibili. In questo caso, come in tanti altri, l’avvocato difensore non ha modo di ricontattare i suoi assistiti per informarli della decisione e dei possibili rimedi per l’ingiusta detenzione patita, da esperire tempestivamente. Spesso questa situazione è aggravata dal coinvolgimento di avvocati meno esperti che non forniscono un adeguato approfondimento ai loro assistiti o non creano un rapporto di fiducia con gli stessi.
Infatti, la riparazione per ingiusta detenzione deve essere richiesta entro due anni dal giorno in cui la sentenza diventa irrevocabile. Una persona scagionata da ogni accusa, quindi, ha un limite di tempo in cui chiedere un risarcimento in denaro per gli anni di vita persi in detenzione. La cifra massima di risarcimento è stabilita da legge a poco più di €500.000 e la base di partenza è calcolata da circa 200 euro per ogni giorno di carcere; un anno di ingiusta detenzione, quindi, vale circa €80.000. Questi numeri sono molto approssimativi, ma danno un’idea dell’importanza delle domande di riparazione, numeri che diventano anche più significativi quando si riconosce il bassissimo potere economico di quasi tutte le persone che decidono di entrare Italia illegalmente tramite la rotta marittima.
Tuttavia, nonostante gli innumerevoli casi di assoluzione e la previsione di risarcimento nell’ordinamento italiano, sono pochissimi i casi riscontrati in cui la richiesta è stata presentata e ci sia stata una riscossione. Ci sono vari motivi per i quali o le domande non vengono presentate o l’iter in qualche modo si blocca. In primis, come già accennato, esiste il problema che spesso gli avvocati perdono il contatto con i loro assistiti. In secondo luogo, anche quando rimangono in contatto, non sempre dedicano il giusto tempo per spiegare la possibilità di richiedere il risarcimento. Interessandoci al caso di B.K., arrestato nel 2014 e poi detenuto per un anno in carcere prima dell’assoluzione, abbiamo contattato l’avvocato che non aveva mai pensato di richiedere il risarcimento per i danni da ingiusta detenzione.
Poi ci sono i casi in cui l’iter viene bloccato e non si riesce a riscuotere la somma riconosciuta, a causa della condizione di precarietà legale in cui gli stranieri in Italia spesso si trovano. Anche quando la domanda di risarcimento viene accolta, le persone assolte possono riscontrare dei problemi nell’apertura di un conto bancario sul quale far versare la cifra, in assenza di un documento di identità. Esemplare la situazione di A., assolto dopo 6 mesi di detenzione, il cui avvocato aveva richiesto il risarcimento. La pratica è andata a un buon fine, ma c’è stato un disguido sui passaggi necessari per aprire un conto e fornire un documento di identità. A. ha cambiato avvocato varie volte, frustrato dalla situazione di stallo, e ancora non è riuscito a risolvere la situazione.