“‘Andate a trovarmi un colpevole!’ Così il comandante ci ha detto di fare!”
— Un mediatore linguistico che lavorava con la guardia costiera
“C’ho pensato tanto e sì, certo, i ragazzi dentro hanno bisogno delle scarpe e dei vestiti, un po’ di soldi… ma quello di cui hanno bisogno veramente è la loro libertà. Hanno bisogno di avvocati buoni.”
— B., arrestato nel 2014.
“Questi tizi che guidano la barca e poi finiscono in prigione — per me alcuni sono come angeli. Angeli in prigione. Sono persone che prima salvano vite e poi finiscono dentro. Roba da matti, il governo italiano, la giustizia italiana dovrebbero scavare più a fondo. Perché alcuni di questi ragazzi che sono stati arrestati cercano di mettersi in salvo. Perciò, che Dio li aiuti, perché hanno messo in salvo anche altra gente. Gente come me.”
— F., militante biafrano.
Questo rapporto nasce dalla volontà delle associazioni autrici di far luce sulla criminalizzazione dei cosiddetti ‘scafisti’ da parte dello Stato italiano.
Ha come premessa fondamentale la condanna della chiusura delle frontiere, che comporta l’eliminazione di quasi ogni modo di poter giungere in Europa per vie sicure, soprattutto per persone provenienti dal sud globale. Riconosce l’applicazione della legge penale funzionalmente a queste politiche di chiusura, e si pone in una posizione radicalmente critica alla criminalizzazione dell’attraversamento delle frontiere, incarnata in questo caso dalla figura del cosiddetto scafista. Il rapporto propone una visione del fenomeno che potrebbe essere interpretata come provocatoria da alcune persone, scontata da altre: attraversare la frontiera, oppure aiutare qualcuno a farlo, non dovrebbe essere di per sé un reato. La criminalizzazione di coloro che attraversano le frontiere distoglie l’attenzione dalla violenza razzista messa in atto dall’Europa. Il problema infatti non sono le persone che attraversano le frontiere, ma il regime di frontiera che ogni giorno costringe centinaia di persone ad intraprendere viaggi pericolosi e troppo spesso letali. L’abolizione di questo regime, e non la criminalizzazione di coloro che lo sfidano, è l’unica risposta adeguata alla situazione attuale.
La persecuzione sotto il profilo penale dei cosiddetti scafisti in Italia andrebbe letta nel contesto sempre più ampio della criminalizzazione della migrazione verso l’Europa. Nel caso dei cosiddetti scafisti, si tratta della criminalizzazione dell’atto di guidare una barca con a bordo migranti che fanno ingresso in Europa senza visto; va ricordato che i procedimenti penali contro i guidatori delle barche si svolgono non solo in Italia ma anche in Grecia, Spagna, le Canarie e il Regno unito: le tragiche situazioni che emergono da questa ricerca rappresentano, quindi, un tassello di un fenomeno di scala internazionale. Allo stesso tempo, questi eventi devono essere visti e analizzati anche tenendo conto del contesto italiano, un Paese in cui gli atti di solidarietà alle persone migranti sono presi di mira dalle procure, come dimostrato dai procedimenti penali aperti contro gli equipaggi delle missioni civili di ricerca e soccorso (Iuventa, Mediterranea) e dalla condanna in primo grado del Sindaco di Riace.
Nonostante molta attenzione pubblica e mediatica venga rivolta verso la criminalizzazione della società civile Europea e delle persone Europee che agiscono in solidarietà con persone migranti, si conosce poco o nulla sulla criminalizzazione di coloro che attraversano le frontiere.
Per la Destra, il cosiddetto scafista è stato costruito come il colpevole principale di un’“invasione di extracomunitari”. Per la Sinistra, invece, il cosiddetto scafista troppo spesso é stato individuato come il colpevole dei naufragi e delle morti in mare. In entrambe le visioni è comunque una figura che lucra e sfrutta, se non addirittura un carnefice all’interno dei meccanismi prodotti dai regimi di frontiera. Come dimostrato da questo rapporto, queste tesi sono politicamente dannose e non hanno alcuna aderenza ai fatti.
Si tratta di un fenomeno molto complesso, in cui le persone che guidano le barche lo fanno per un’ampia serie di motivi che sono difficili da semplificare, ma che di base sono l’ultimo anello di una rete molto più grande, i cui vertici rimangono nell’ombra. In più, queste persone, lontane dall’essere colpevoli per le morti in mare, sono spesso anche loro migranti ai quali è stato impedito l’ingresso in Europa, e che rischiano le proprie vite per attraversare le frontiere. Queste vicende si dispiegano nelle maniere piu` varie: dalle persone inserite in sistemi di sfruttamento, violentemente forzate a guidare un’imbarcazione, a persone che si rendono protagoniste di importanti atti di eroismo e solidarietà per salvare le vite delle altre persone che trasportavano. In alcuni casi, entrambe le cose.
Eroi o vittime, i procedimenti penali promossi dallo Stato italiano continuano lo stesso: è il sospetto dell’atto di guidare una barca con a bordo altri migranti che fa scattare le indagini e le condanne, a prescindere dalle motivazioni. La criminalizzazione dell’atto, e quindi delle persone che lo commettono, non è una conseguenza inevitabile del fenomeno della migrazione, ma è il frutto di una precisa volontà degli Stati europei.
Il crescente rifiuto da parte di tutti gli Stati europei di permettere l’ingresso a persone provenienti dal Sud del mondo ha prodotto risultati prevedibili e abominevoli. Da un lato, il proliferare di confini militarizzati – che si estendono dalle frontiere europee fino ai paesi di transito e partenza – ha generato una violenza inaudita e ha trasformato il Mar Mediterraneo in un vero e proprio cimitero di massa. Dall’altro, le politiche di chiusura hanno indotto lo sviluppo di una serie di pratiche, organizzazioni e reti – sia ben strutturate che del tutto informali – che facilitano l’ingresso in Europa, benchè in modo reso irregolare o illegale dalle politiche di frontiera. La chiusura dei confini degli Stati europei è stata posta in essere, in questo contesto, non soltanto tramite mezzi fisici, ma anche con strumenti giuridici predisposti da ciascun Paese, perseguendo ogni forma di ingresso irregolare e ogni atto che faciliti tale ingresso.
In Italia questa criminalizzazione è stata realizzata in primo luogo tramite la previsione del reato di “favoreggiamento dell’ingresso clandestino”, istituito quasi 25 anni fa, in seguito a due noti disastri marittimi. Con le insurrezioni nel mondo arabo a partire dal 2011, e con l’incremento delle partenze dalle coste del Mediterraneo, questa previsione di legge è stata applicata in modo sempre più estensivo, sottoponendo migliaia di persone a procedimenti penali, con un costo considerevole sia sulla spesa pubblica, che sulle vite delle persone coinvolte.
Prendendo in analisi il contesto italiano, questo rapporto mette in luce innanzitutto il numero altissimo di procedimenti penali in Italia – oltre 2.500 – che dal 2013 sono stati incardinati prevalentemente nei confronti di persone accusate di avere condotto le imbarcazioni con a bordo migranti. Questo dato ci dà la misura dell’entità di un fenomeno che, lungi dal costituire un’ipotesi residuale dell’applicazione del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, rappresenta il modo principale in cui la legge è stata applicata. Questa cifra, quindi, indica il chiaro fallimento sotto qualsiasi punto di vista delle politiche migratorie che vorrebbero contrastare l’immigrazione irregolare: invece di bloccare il flusso migratorio, le politiche europee sono riuscite solamente a criminalizzarlo, ad alzare il rischio per la vita dei migranti stessi, e a fomentare nuove forme di razzismo. Ogni governo italiano — da Renzi a Gentiloni, da Conte a Draghi — ha continuato a sostenere la stessa logica perversa.
L’analisi svolta ha permesso anche di rilevare l’impatto devastante che questi procedimenti hanno sulla vita delle persone coinvolte, che nella maggior parte dei casi non hanno accesso ad un’effettiva difesa ed a una piena tutela dei loro diritti fondamentali. Inoltre, nel periodo in esame sono state introdotte delle norme peggiorative in diversi settori, che criminalizzano ulteriormente i cosiddetti scafisti – come le limitazioni nel riconoscimento della protezione internazionale e nell’accesso alla possibilità di detenzione domiciliare – che hanno contribuito ad aumentare la popolazione carceraria e strutturato una “fabbrica” dell’irregolarità nella quale le persone sono rese ‘invisibili’ e per questo facili da sfruttare e ricattare.
Le associazioni autrici e il metodo di ricerca
Il rapporto è stato redatto dal circolo ARCI “Porco Rosso” di Palermo con il sostegno della rete transnazionale ‘Watch the Med – Alarm Phone’, in collaborazione con le onlus Borderline Sicilia e borderline-europe. Lo scopo della presente ricerca è quello di ricostruire un quadro attuale dell’ampiezza del fenomeno della criminalizzazione, per portare all’attenzione dell’opinione pubblica le gravi violazioni dei diritti umani attuate ai danni delle persone accusate di “scafismo”. In conclusione si perviene al improrogabile necessità che l’Italia riveda l’impianto normativo che attualmente permette di criminalizzare l’atto di guidare le barche di migranti che cercano ingresso in Europa.
- ARCI Porco Rosso. Tante delle persone criminalizzate con cui abbiamo parlato hanno partecipato alla ricerca grazie all’impegno degli attivisti e delle attiviste dello Sportello Sans-Papiers dell’ARCI Porco Rosso, uno spazio di ascolto e sostegno che opera nel centro storico di Palermo, Sicilia, dall’inizio del 2016. I tre principali ricercatori del rapporto fanno parte di questo Sportello: il team e` composto da un operatore sociale, un’operatrice legale e un organizzatore di comunità, lui stesso criminalizzato per aver guidato una barca, e che ha vissuto le conseguenze di questo fenomeno.
- Watch The Med Alarm Phone è stata creata nell’ottobre del 2014 da reti di attivisti e attiviste in Europa e Nord Africa. Il progetto ha istituito un numero di emergenza auto-organizzato per supportare migranti in difficoltà nel Mar Mediterraneo, con l’obiettivo di offrire una più ampia visibilità agli SOS provenienti da imbarcazioni in pericolo. In contatto diretto e costante con le persone che attraversano il Mediterraneo, le attiviste e gli attivisti di Alarm Phone lottano per la libertà di movimento e per l’abolizione del regime di frontiera europeo. Negli ultimi anni la rete si è mobilitata in solidarietà sulla criminalizzazione delle operazioni di ricerca e soccorso della società civile e delle persone che attraversano le frontiere europee.
- borderline-europe osserva e documenta sistematicamente le notizie degli arresti per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina dal 2016; ha coordinato, contribuito a, e pubblicato “Criminalization of Flight and Escape Aid” (2017), il primo approfondimento sul tema. Essi informano regolarmente sui processi dei così detti “scafisti”, seguendo e sostenendo i singoli casi dal momento dell’arresto fino al rilascio. Nel 2020 borderline-europe ha pubblicato un ulteriore report sulla situazione – “Incarcerating the Marginalized” (insieme con CPT-Aegean Migrant Solidarity e bordermonitoring.eu) che rivela in che misura i sospetti ‘scafisti’ sono criminalizzati e imprigionati in Grecia, dove le sentenze spesso arrivano a superare i 100 anni di reclusione.
- Borderline Sicilia nasce nel 2008 come osservatorio sulle pratiche adottate da attori istituzionali e privati nella gestione fenomeno della migrazione in Sicilia. Segue lo sviluppo della criminalizzazione della società civile e della migrazione sin dal primo processo contro l’Ong tedesca Cap Anamur (2004) ed il caso dei 7 pescatori tunisini (2007). E’ stata autrice del capitolo italiano del rapporto internazionale ‘Criminalization of Flight and Escape Aid’ (2017), descrivendo il fenomeno dei cosiddetti scafisti di necessità e forzati. Le avvocate dell’associazione sono impegnate nella difesa di persone accusate di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare che, insieme agli altri operatori volontari, assistono anche dal punto di vista amministrativo.
Il presente rapporto fornisce una panoramica della criminalizzazione delle persone migranti che guidano le barche nelle rotte marittime del Mediterraneo, analizzando tutti i passaggi: la partenza, l’attraversamento del mare, l’arrivo in Italia, i fermi, i procedimenti penali, l’incarcerazione e, infine, le conseguenze sulla vita delle persone fuori dal carcere.
Per avere un quadro analitico di ogni aspetto, abbiamo intervistato una vasta gamma di attori durante il periodo di ricerca (gennaio – giugno 2021). Abbiamo ascoltato i racconti delle persone accusate di aver guidato le barche: di chi nega le accuse e di chi rivendica la propria azione coraggiosa; dei detenuti e degli scarcerati; delle persone che provengono dall’Europa, dall’Africa e dal medio-oriente, e che ora risiedono, fra gli altri, in Italia, Francia, Germania, Malta e Regno Unito. In tutto, quasi cinquanta persone che si sono ritrovate al centro di questa burrasca giuridica e che ci hanno regalato il loro preziosissimo tempo – per uno spirito di generosità nei nostri confronti o di solidarietà` con le persone che continuano ad essere criminalizzate come loro – persone che, speriamo, possano essere aiutate da questa ricerca.
Le loro storie personali si possono leggere in vari punti del report, e forniscono una testimonianza diretta della sofferenza di ciascuno. Persone come A., un profugo ucraino che ha passato due anni e mezzo dentro un carcere calabrese dopo aver guidato nel 2015 una barca che trasportava, dalla Grecia all’Italia, settanta persone siriane ed irachene. O come i due profughi siriani che sono stati fermati dopo un soccorso operato da una ONG nel 2019, e che attualmente stanno scontando una pena di due anni e dieci mesi. O ancora come B., un giovane richiedente asilo senegalese, condannato in secondo grado nel 2018, dopo essere rimasto in Italia per due anni in stato di libertà, uscito dal carcere solamente un mese fa.
Abbiamo inoltre raccolto le dichiarazioni di avvocati, ricercatori e ricercatrici, attiviste e attivisti, assistenti sociali, e membri delle Forze dell’ordine, della magistratura e della Guardia costiera. Le interviste con alcune avvocate, che seguono casi su Ragusa, Catania e Palermo, ci hanno fornito una raccolta di sentenze, che hanno rappresentato un utilissimo strumento di studio e approfondimento.
Tuttavia, il numero esiguo di casi analizzati, in proporzione all’ampiezza del fenomeno, non vale a catturare appieno la complessità della criminalizzazione. Come chiariremo meglio nel primo capitolo, abbiamo aggregato i dati estrapolati dai rapporti pubblicati dalle forze dell’ordine con quelli tratti da centinaia di articoli di cronaca – relativi ai fermi dei cosiddetti Scafisti – analizzati in maniera sistematica.
Una nota su linguaggio
Studiare lo sviluppo della criminalizzazione della migrazione negli ultimi 25 anni, pone una necessaria premessa terminologica sulle parole utilizzate. Per rinforzare la criminalizzazione delle persone che attraversano le frontiere, le politiche italiane ed europee hanno fatto uso di un linguaggio politicamente stigmatizzante, che non rende la complessità` del fenomeno e distorce la percezione della condotta di guida delle imbarcazioni con a bordo migranti. In questo rapporto proponiamo una lettura critica di questi termini e cerchiamo di restituire una visione più` completa.
Alcune di queste parole sono state adoperate in ambito istituzionale, con importanti conseguenze normative: per esempio la differenza tra il ‘traffico’ e la ‘tratta’ di esseri umani, oppure l’utilizzo di termini nautici come ‘skipper’, ‘comandante’, ‘equipaggio’. Altre parole si sono affermate, invece, nel gergo del giornalismo, soprattutto ‘scafista’, che ormai non e` piu` solamente associata al contesto marittimo, ma viene usata per descrivere qualsiasi atto criminalizzato di trasporto di persone migranti. E poi c’è un intero lessico che deriva non dal contesto europeo ma da quello utilizzato dai migranti stessi: ‘passeur’, ‘cockseur’, ‘connection man’.
Rispetto alla parola “scafista”, riteniamo opportuno fare una distinzione tra l’offerta di un servizio reso necessario dalla chiusura delle vie legali di ingresso in Europa – quindi la coadiuvazione nell’attraversamento della frontiera – ed i sistemi di sfruttamento e violenza che possono instaurarsi intorno a questo fenomeno, come purtroppo spesso succede, ma che non attengono all’atto di attraversamento della frontiera in se`, ne` a quello di guida dell’imbarcazione. Infatti, la mancanza di questa distinzione porta spesso ad una confusione linguistica che può rafforzare i problemi normativi, per cui “il trafficante” diventa necessariamente uno sfruttatore violento, e lo “scafista” – riconosciuto come un trafficante – viene erroneamente associato a reati ben più gravi della facilitazione dell’ingresso irregolare.
Nel presente rapporto abbiamo deciso di utilizzare le parole ‘scafista’ e ‘capitano’, poiché riteniamo che riflettano il focus marittimo della ricerca. Infatti, abbiamo limitato l’analisi proprio alle vicende delle persone accusate di aver favorito l’immigrazione irregolare tramite il trasporto via mare, e che sono loro stesse arrivate in Italia attraverso il confine marittimo. La parola “scafista” è quella alla quale siamo maggiormente abituati, e di cui cerchiamo di contrastare le connotazioni negative attraverso la descrizione dei fatti che abbiamo analizzato nel presente rapporto. La seconda parola utilizzata – ‘capitano’ – è quella che le persone che sono state criminalizzate usano per descrivere il proprio ruolo.
Come ultima nota e` opportuno indicare che nel testo del rapporto viene utilizzato quasi esclusivamente il genere maschile: questa scelta convenzionale risponde all’esigenza di semplificare la lettura del testo, pur avendo la consapevolezza che il linguaggio non è neutro e riproduce processi discriminatori.