Negli capitoli di questo report abbiamo cercato di porre davanti al lettore, in modo chiaro e comprensibile, le diverse modalità con cui i cosiddetti scafisti sono criminalizzati dallo Stato italiano. Le 2.500 persone che sono state fermate in relazione a questa accusa negli ultimi 8 anni hanno vissuto sulla propria pelle aspetti di questo fenomeno: nelle questure, nei tribunali, nelle carceri, e anche per strada. Abbiamo spiegato lo sviluppo storico sia dell’organizzazione del trasporto dei migranti sulle rotte marittime, sia delle indagini dalla parte delle forze dell’ordine e delle procure, per evidenziare quanto spesso le ricostruzioni dei fatti da parte dello Stato siano lontane dalla realtà.
In queste conclusioni ripercorriamo alcuni punti del report, per poi formulare delle raccomandazioni da sottoporre alle istituzioni e, più in generale, a chiunque voglia avanzare richieste allo Stato italiano e agli organi preposti.
In primo luogo, i risultati della ricerca hanno evidenziato come l’obiettivo politico –troppo spesso visto come imprescindibile- di scovare lo scafista venga utilizzato per giustificare la violazione dei più basilari diritti umani. I diritti che ogni stato democratico si prefigge di tutelare -in quanto diritti umani inviolabili, garantiti a ogni persona sottoposta a un procedimento penale- vengono facilmente messi da parte dinnanzi alla necessità di trovare un colpevole. Abbiamo visto e evidenziato come:
- i metodi di identificazione siano spesso approssimativi e si prestino facilmente a errori e a ricostruzioni parziali e fuorvianti dei fatti. L’interesse degli inquirenti è, infatti, volto esclusivamente a scoprire chi ha guidato, o ha avuto un ruolo nella traversata, senza approfondire la dinamica dei fatti. Questo è evidente in tema dell’uso strumentale e parziale dei testimoni;
- l’accesso a una difesa piena ed effettiva spesso non è garantito;
- anche un impianto probatorio debole può portare a pesanti condanne, con grave violazione del principio costituzionale in forza del quale se vi è un dubbio sulla colpevolezza dell’imputato si deve sempre e comunque procedere a un’assoluzione (presunzione di non colpevolezza). Nei processi contro i presunti scafisti l’atteggiamento agguerrito delle Procure e la leggerezza dei giudici può portare a un’aperta violazione di questo principio;
- la vita in carcere dei cosiddetti scafisti, come quella dei detenuti stranieri in generale, è più afflittiva rispetto a quella degli altri detenuti, non solo per l’isolamento sociale e linguistico, ma anche a causa delle numerose difficoltà di accesso alle misure alternative alla detenzione;
- gli effetti della criminalizzazione proseguono anche dopo la conclusione della vicenda penale dal momento che la condanna impedisce di vedersi riconosciuta la protezione internazionale. Il diritto fondamentale di essere tutelato in quanto rifugiato viene meno a causa di una colpevolezza accertata senza le dovute garanzie processuali
Il capitano diventa così vittima non solo di un processo di criminalizzazione ingiusto che non si limita alla semplice condanna penale, ma anche di un’estrema leggerezza nell’accertamento della sua responsabilità, con conseguente violazione dei suoi diritti umani fondamentali.
I tentativi di giustificare l’accanimento governativo e giudiziario nei confronti dei presunti scafisti si basano sul fatto che essi sarebbero responsabili della messa in pericolo delle persone migranti che si trovano sull’imbarcazione da lui condotta. Questa giustificazione suona quanto mai retorica se si considera che invece di tutelare le persone migranti, considerati vittime del cd scafista, la criminalizzazione riesce esclusivamente a mettere in pericolo le loro vite, sottoponendoli a rischi più alti e contribuendo materialmente alle più tragiche catastrofi nel Mediterraneo.
Un tema fondamentale che è emerso durante la ricerca -e che dovrà essere messo al centro di futuri interventi – è che la criminalizzazione dei cosiddetti scafisti non è un problema solamente per le persone che effettivamente vengono sottoposte a procedimento penale. Infatti, nel corso del report abbiamo evidenziato vari momenti in cui la criminalizzazione dei cd scafisti diventa un fattore di rischio per i migranti stessi. Eccoli qui sintetizzati.
- Al momento di scegliere il capitano per il viaggio, spesso i migranti più esperti a guidare non si candidano, coscienti delle conseguenze penali dell’azione. Questo fa sì che si mettano al comando della barca persone con poca esperienza nella navigazione in mare. Allo stesso tempo, la mancanza di capitani esperti che si offrono di condurre l’imbarcazione, ha portato alla modalità di costrizione violenta delle persone a guidare la barca.
- Contribuisce ad aumentare il rischio di naufragio nel corso della traversata anche la criminalizzazione della migrazione nei paesi di partenza. Nel racconto di due migranti recentemente sbarcati in Italia che abbiamo intervistato, la criminalizzazione della migrazione in Libia ha portato a una più forte necessità di metodi clandestini. Questo ha accorciato i tempi di organizzazione, incluso il momento di selezione del capitano: ci hanno raccontato, infatti, che il capitano inizialmente scelto non era in grado di guidare la barca, e un altro passeggero ha dovuto prendere il timone per salvare tutti.
- Nel viaggio stesso, per evitare di essere identificati, i capitani adottano delle prassi che mettono a rischio i migranti stessi: questo è molto evidente nella rotta adriatica, in cui ai passeggeri è vietato uscire dalla stiva, con il rischio che si verifichino morti per asfissia. Questo succede, da un lato, per evitare un possibile sbilanciamento della barca, dall’altro per mantenere l’illusione – in caso di sorveglianza area – che si tratti di un normale yacht di lusso con uno skipper a bordo, e non di un’imbarcazione con un carico di 50 extracomunitari, il cui skipper rischia anni di carcere.
- Come ci è stato raccontato tante volte, al momento dell’intercettazione della barca di migranti in mare, succede spesso che i capitani si allontanino dal motore per non essere identificati come scafisti. Questo spostamento in sé può essere fonte di confusione e sbilanciamento, e causa del rovesciamento della barca. Inoltre, in questo modo, la barca viene lasciata senza capitano nel momento più critico del viaggio, quando il rischio di naufragio è molto alto. In modo simile, come è stato evidenziato nel naufragio del 3 ottobre 2013, accade anche che il capitano getti in acqua il telefono satellitare per evitare di essere individuato, perdendo così la possibilità di mettersi in contatto con i soccorritori, anche qui nel momento in cui il rischio di naufragio è elevato. Inoltre, nelle rotte tunisina ed adriatica, i capitani a volte si tuffano in acqua per evitare l’individuazione.
- Durante le operazioni di soccorso e sbarco, tempo e risorse vengono spesso canalizzati nell’identificazione dello scafista, mentre le priorità dovrebbero essere altre: la cura delle persone migranti sotto un profilo sia fisico che psicologico, l’identificazione delle persone morte, la riunificazione dei nuclei familiari.
Mentre la figura dello ‘scafista’ è stata demonizzata come carnefice della migrazione, responsabile delle tragedie che si consumano ogni settimana nel Mar Mediterraneo – dall’analisi condotta nel presente report emerge la verità: è la criminalizzazione dell’atto di guidare la barca che contribuisce al perpetrarsi di queste tragedie, molto più che le azioni delle persone che le barche le conducono. Se l’intenzione degli Stati europei fosse veramente quella di tutelare la vita dei migranti in mare, dovrebbero prendere atto che è impossibile non soltanto fermare ma anche solo ridurre le migrazioni, ed adoperarsi per diminuire i rischi che dei viaggi, la creazione di canali regolari di ingresso e protezione delle persone, anziché criminalizzare chi, guidando la barca, cerca di portare se stesso e gli altri passeggeri in salvo.
In base ai risultati della ricerca condotta, riteniamo necessario fare un appello a tutte le persone interessate al lavoro svolto e che vogliano unire la loro voce alla nostra per chiedere alle istituzioni europee e italiane di:
- Rivedere le attuali politiche migratorie, abolendo il sistema di militarizzazione e chiusura delle frontiere;
- Porre fine alla criminalizzazione dell’atto di aiuto delle persone ad attraversare un confine in generale, e alla criminalizzazione delle persone che hanno guidato le barche di migranti che attraversano, o cercano di attraversare il mediterraneo in particolare;
- Indirizzare le risorse sull’accoglienza e non la criminalizzazione dei migranti;
- Abolire tutti gli articoli di legge – come art. 12 del TUI in Italia – che criminalizzano il trasporto dei migranti senza che ci sia una netta e completa prevalenza dell’interesse alla tutela del confine dello Stato a scapito della tutela delle vite, diritti e libertà dei migranti stessi;
- Garantite i diritti degli indagati e degli imputati. E’ fondamentale che il diritto a una difesa piena ed effettiva venga garantita a tutte le persone accusate di favoreggiamento. Questo vuol dire accesso ad una difesa da parte di avvocati esperti, effettiva informativa sulla scelta del rito, accesso alla mediazione linguistica-culturale in ogni fase del procedimento, colloqui difensivi riservati e facilitati linguisticamente;
- Tutelare i diritti dei testimoni. In modo simile, non solo i presunti scafisti ma anche le persone informate dei fatti (poi testimoni nel caso di un processo) devono ricevere adeguata e precisa informazione sulle conseguenze delle loro dichiarazioni, e nel caso in cui siano indagati per il reato di ingresso clandestino, deve essere assicurato che tutte le dichiarazioni vengono rilasciate in presenza di un difensore esperto in materia.
- Ridurre l’ambito di applicazione dell’art. 12 del Testo Unico Immigrazione. Un primo, anche se senz’altro insufficiente, passo in avanti sarebbe quello di prevedere che il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina si configuri solo quando sia posto in essere con “il fine di trarne un ingiusto profitto”. Nonostante il nostro obiettivo potrà dirsi raggiunto solo quando non sarà più criminalizzato l’atto di guidare la barca, questa previsione ridurrebbe l’ambito di applicazione dell’art. 12 TUI (si pensi non solo a molti capitani, ma anche a tutti glia atti solidali verso i migranti oggi criminalizzati), oltrechè imporrebbe alla Procura di dimostrare e provare in un processo che il capitano ha guidato con il fine di trarne un ingiusto profitto e qualora non riesca a dimostrare che chi guida –anche non forzatamente- ha guadagnato qualcosa dalla traversata, il capitano verrebbe assolto.
- Riconoscere lo stato di necessità. Nei procedimenti penali, la magistratura dovrebbe valutare con maggior attenzione l’argomento dello stato di necessità, utilizzando un istituto dell’ordinamento italiano già esistente che riconosce che non possa ritenersi colpevole chi ha commesso un determinato reato perché costretto a commetterlo dalla necessità di salvare sé o altri
- Porre fine all’abuso dell’applicazione delle misure cautelari nei confronti delle persone indagate di favoreggiamento. Le misure cautelari nei confronti delle persone accusate di aver guidato le barche vengono troppo spesso applicate più sulla base del pregiudizio sociale consolidatosi rispetto al reato in questione che su concreti elementi di prova e su reali esigenze cautelari esistenti in ogni singolo caso. Riteniamo fondamentale che la libertà personale sia tutelata soprattutto quando le prove della colpevolezza sono frammentarie e basate su dichiarazioni di persone informate sui fatti facilmente ricattabili ed influenzabili;
- Revocare l’ostatività alla detenzione domiciliare. Dopo il 2015, per le persone condannate per il reato a cui art. 12 del TUI è escluso l’accesso alla detenzione domiciliare e ad altre misure alternative. Questa previsione rappresenta un ulteriore livello di criminalizzazione, volta a stigmatizzare i cosiddetti scafisti, sulla base di una presunta pericolosità sociale che dovrebbe essere invece valutata su base individuale.
- Leggere e rispondere immediatamente alle richieste dei detenuti. I cittadini stranieri detenuti in Italia hanno bisogno di maggior tutela per aver garantiti i loro diritti e libertà; le domande e le richieste per comunicare con parenti e associazioni, per ricevere anche la più basilare assistenza (mediazione linguistica, indumenti) devono essere attenzionate e trovare risposta più rapidamente.
- Abrogare le norme che impediscono o limitano l’accesso al riconoscimento della protezione internazionale. Dal 2009 sono state introdotte norme che escludono il riconoscimento della protezione internazionale alle persone condannate per il reato a cui art. 12 del TUI; questa limitazione rappresenta un ulteriore passaggio nella criminalizzazione dei cosiddetti scafisti, che nega a tante persone la possibilità di essere riconosciuto come rifugiato in Europa;
- Tutelare i diritti dei richiedenti di asilo in detenzione. Maggiore attenzione deve essere messa sulla volontà di richiedere protezione internazionale che viene manifestata in carcere; il rifiuto di formalizzare presso gli organi competenti questa volontà, anche per motivi di disorganizzazione interna, rappresenta una gravissima violazione dei diritti dei richiedenti di asilo. Inoltre, i richiedenti di asilo detenuti dovrebbe essere inseriti nei centri di accoglienza adatti al termine della pena, con trattamento uguale altri soggetti con il loro stesso status legale.
Questo report è solo un inizio. Ci auguriamo che la più ampia rappresentanza della società civile – collettivi, sindacati, organizzazioni non-governative, partiti politici – prenda atto dei risultati di questa ricerca e si adoperi per attuare le raccomandazioni esposte. Ci sono centinaia di persone che rimangono nelle carceri italiane, spesso senza una rete di sostegno o una tutela dei loro diritti. E nonostante sia da anni che le persone criminalizzate tentano – tramite associazionismo e giornalismo – di porre l’attenzione sulla vicenda che le vede coinvolte, sulle accuse che ingiustamente subiscono, i fermi continuano ogni settimana e i fascicoli si accumulano, costringendo le vite di tantissime persone in un limbo insopportabile, oppure in una detenzione indeterminata.
Oltre a esprimere solidarietà alle persone colpite in modo così drammatico da queste leggi ingiuste – e trovare modo di attualizzare questa solidarietà – bisogna lavorare e lottare per il superamento di un intero paradigma che criminalizza la migrazione e che vede la legge penale come strumento per rafforzare un razzismo e una divisione su scala planetaria. Solamente quando questo superamento sarà compiuto potremmo iniziare – insieme e collettivamente – a parlare in modo onesto su cosa può voler dire “giustizia”.