La prima identificazione del capitano o del cosiddetto equipaggio può avvenire già dal momento in cui la barca di migranti viene intercettata da altre imbarcazioni, rendendo rapido il passaggio da un’azione di salvataggio ad un’indagine di polizia che verrà poi cristallizzata in una vicenda giudiziaria. In questa sezione esaminiamo prima i luoghi e gli attori dell’identificazione – le navi della guardia costiera, quelle commerciali e delle ONG e i centri ‘hotspot’ – per poi passare ai metodi di identificazione che danno impulso ai procedimenti penali: innanzitutto i colloqui con alcuni passeggeri, ma anche l’utilizzo di fotografie dalle navi e dispositivi aerei; in alcuni casi la sola nazionalità dell’accusato ha costituito un indizio di colpevolezza per chi ha svolto le indagini.

1. Momenti dell’identificazione
La guardia costiera
“L’ispettore riferiva che immediatamente dopo i recuperi in mare era stata avviata dal personale della Guardia Costiera un’attività investigativa – da inquadrarsi nell’ambito delle attività di polizia – volta alla assicurazione delle fonti di prova ed alla ricerca di reato ed anche all’identificazione di possibili responsabili del trasporto eventualmente confusi tra i migranti.”
Come leggiamo nell’estratto di una sentenza del Tribunale di Palermo del 2016, gli equipaggi a bordo delle grandi navi della Guardia Costiera italiana utilizzate per il soccorso di migranti – la Dattilo, la Diciotti e la Gregoretti – effettuano una prima identificazione di sospettati nelle ore che intercorrono fra il soccorso e lo sbarco. Gli ufficiali della Guardia Costiera stessi interrogano i passeggeri, cercando qualcuno che possa fornire informazioni sull’identità del capitano e di un eventuale equipaggio. Lo stesso iter si segue anche se il soccorso è stato effettuato da un tipo di nave diverso (p.e. da una nave di una ONG): quando i passeggeri vengono trasbordati su una nave della Guardia Costiera, le pratiche di identificazione iniziano a bordo. Le domande sono sempre volte a scoprire chi ha guidato e operato sulla barca, e non vertono mai, invece, sull’organizzazione del traffico/tratta e sulla partenza. I sospettati vengono separati dagli altri passeggeri, durante tutto il viaggio o poco prima dello sbarco. Spesso vengono identificati anche attraverso dei braccialetti differenziati per colore o per numero. In un caso, alle persone sospettate di essere scafisti, è stato detto che venivano messe da parte perché avevano problemi di salute, e, solo successivamente allo sbarco, esse apprendevano il vero motivo.
Se sulle navi grandi della Guardia Costiera l’identificazione viene svolta a bordo, le navi più piccole portano sulla terraferma i migranti che vengono trasferiti negli hotspot di Lampedusa, ove si svolgono le prime operazioni di identificazione e le indagini. Anche nei casi in cui una prima identificazione viene effettuata a bordo, le indagini comunque continuano a terra, soprattutto quelle volte a raccogliere le dichiarazioni di altri passeggeri.
La flotta militare
Le prassi di identificazione a bordo utilizzate dalla Guardia Costiera avvengono anche sulle navi militari di altri Stati, o per lo meno avvenivano quando erano presenti a bordo gli ufficiali dell’Agenzia Frontex. Si legge per esempio negli atti giudiziari di un caso de 2015, con riferimento all’identificazione operata a bordo di una nave norvegese, su cui sono saliti gli agenti di Frontex:
“il teste premetteva che tutti gli operanti italiani erano saliti sull’imbarcazione norvegese già prima dello sbarco, al fine di compiete le prime indagini. In quel momento i migranti si erano spontaneamente suddivisi in diversi gruppi… A bordo del mercantile norvegese – illustrava ancora l’ufficiale di Polizia Giudiziarie – unitamente agli altri operanti intervenuti, acquisivano una serie di informazioni dal comandante della nave, il quale segnalava loro di avere già individuato alcuni migranti “disponibili” a collaborare con le Autorità e a riconoscere i conducenti dell’imbarcazione.“
Abbiamo riscontrato identificazioni svolte a bordo di navi militari portoghesi, britanniche e norvegesi. In quest’ultimo caso è stato significativo notare che il primo soccorso è stato effettuato da una nave militare italiana, che poi ha trasbordato i sopravvissuti sulla nave Frontex Siem Pilot. In questo caso, Frontex ha anche fornito dei report che sono stati utilizzati come mezzi di prova in Tribunale.
Le flotte commerciali (il caso della Vos Thalassa)
Nei casi di soccorso operati da navi commerciali non abbiamo riscontrato identificazioni effettuate a bordo dall’equipaggio, nè assunzione di informazioni che sono state trasmesse agli organi inquirenti; l’unica eccezione di cui siamo a conoscenza è quella del caso della Vos Thalassa.
L’8 luglio del 2018, il rimorchiatore Vos Thalassa, nave di supporto al settore petrolifero, ha salvato 68 persone in mare. Dopo aver inizialmente fatto rotta verso Lampedusa, il comandante ha ricevuto l’ordine– verosimilmente dal coordinamento italiano e da quello libico – di invertire la rotta verso la costa africana. Avendo appreso il cambio di direzione, i passeggeri hanno parlato con il comandante, spiegando che se fossero stati riportati in Libia ci sarebbero state ripercussioni violente. Due migranti in particolare hanno assunto il ruolo di leader del gruppo convincendo gli altri a continuare a protestare.

Nel corso del procedimento penale instaurato a carico di alcuni passeggeri soccorsi si è cercato di appurare se questa protesta sia stata violenta o meno, nonché di ricostruire il contesto in cui si è svolta.Il caso gira intorno alla lettura di un gesto, quello di ‘tagliare la gola’, che potrebbe essere interpretato o come una minaccia nei confronti dell’equipaggio, o come la descrizione della brutta fine a cui i passeggeri sarebbero andati incontro se fossero stati riportati in Libia. In modo analogo, l’imitazione del gesto di buttarsi in mare, potrebbe essere letto come una possibile forma di protesta attuabile–i migranti si sarebbero buttati in mare tutti quanti se la nave non avesse cambiato rotta nuovamente – oppure come la minaccia di gettare ogni membro dell’equipaggio stesso in acqua.
Ci sono stati due gradi di giudizio nei confronti dei due leader della ribellione, con esiti molto diversi. Il capo di imputazione comprendeva sia il reato di violenza e minaccia a un pubblico ufficiale che quello di favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Nel corso del giudizio di primo grado, dopo una lunga analisi dei fatti – e soprattutto del contesto e delle condizioni in Libia alla luce del diritto di essere tratti in salvo presso un luogo sicuro – il Giudice ha assolto gli imputati da tutte le accuse. All’esito invece del giudizio di appello –proposto dalla Procura-, la Corte di Appello ha ribaltato la decisione del GUP, e li ha condannati a 3 anni e 6 mesi di reclusione. Avverso la sentenza della Corte d’Appello è stato proposto ricorso in Cassazione, tutt’ora pendente.
La flotta civile
La collaborazione fra le navi delle ONG e le forze dell’ordine è stato un punto spinoso in questi anni. Nel codice Minniti del 2017, si legge che le Ong dovrebbero assumere
“l’impegno a ricevere a bordo, eventualmente e per il tempo strettamente necessario, su richiesta delle Autorità italiane competenti, funzionari di polizia giudiziaria affinché questi possano raccogliere informazioni e prove finalizzate alle indagini sul traffico di migranti e/o la tratta di esseri umani, senza pregiudizio per lo svolgimento delle attività umanitarie in corso.”
Le ONG hanno, per lo più, rifiutato di firmare il codice con poche eccezioni, e con conseguenze molto serie. Per esempio, nell’indagine della Procura di Trapani a carico di diverse ONG che operavano in missioni di soccorso in mare, secondo l’accusa un elemento importante sarebbe rappresentato dalla mancata comunicazione dell’identità del presunto scafista alla polizia giudiziaria.
Un agente sotto copertura infiltrato a bordo della nave della ONG accusata di favoreggiamento, ha fornito delle foto che ritrarrebbero delle aggressioni di un passeggero verso altri migranti, delle quali, secondo la Procura, l’equipaggio non avrebbe riferito alla Polizia giudiziaria. Questo dimostra come la finalità del codice di condotta fosse quello di raccogliere tramite le ONG elementi di prova nei confronti di chi è alla guida delle imbarcazioni.
Ciò detto, le diverse ONG non condividono unanimemente l’approccio rispetto alla questione dell’identificazione dei cosiddetti scafisti. Solo in un caso – quello della nave del MOAS – riscontriamo una collaborazione diretta con la polizia giudiziaria nell’individuazione dei presunti scafisti nel 2016: un cittadino libico è stato ritenuto sia parte dell’equipaggio di una nave madre, che autore di un omicidio di un migrante sulla nave “figlia”.
Al contempo, nel periodo tra il 2020 e il 2021, i casi di arresti di presunti scafisti in seguito a salvataggi effettuati da navi delle ONG, la cosiddetta flotta civile, lungo la rotta libica, sono tanti e sempre più frequenti a causa della scarsa presenza della flotta militare europea e della guardia costiera italiana. Un caso significativo su questo tema riguarda un salvataggio operato dall’ONG Open Arms nel 2019 a seguito del quale la nave di soccorso è stata trattenuta in porto per due settimane prima di poter effettuare lo sbarco dei migranti. In questo caso due siriani avevano dato una mano all’equipaggio della ONG nella mediazione linguistica, ed uno dei due aveva persino rilasciato un’intervista ad un giornalista durante le due settimane di fermo della nave al porto. Entrambi i migranti sono stati arrestati in quanto ritenuti presunti scafisti dopo le operazioni di identificazione all’interno dell’hotspot e, purtroppo, hanno perso i contatti con l’ONG. In questo caso una maggiore collaborazione con l’equipaggio della nave avrebbe contribuito significativamente alla loro difesa.

2. Metodi di identificazione
L’identificazione dei presunti ‘scafisti’ può avvenire tramite una molteplicità di tecniche che dipendono dalla rotta e dalla disponibilità di mezzi e di passeggeri disposti a collaborare con la polizia giudiziaria. Il manuale di Operazione Sophia di Frontex del 2017, che riassume i metodi ufficiali di identificazione degli ‘smugglers’ include informazioni molto contraddittorie su questo punto. Secondo il manuale, uno smuggler può essere individuato perché “eccessivamente educato o collaborativo, oppure perché dimostra segnali di essere nervoso e scomodo”, oppure perché ha influenza sul gruppo, o perché il gruppo lo teme. Perché molto più grande, o molto più giovane. Il ‘profiling’ di questo tipo non è, evidentemente, quello più seguito.
Invece, il metodo principale è l’uso, ed in molti casi l’abuso, dei cosiddetti testimoni.
La selezione dei testimoni
Il metodo più importante per l’identificazione dei presunti “scafisti” è l’utilizzo delle dichiarazioni degli altri passeggeri, che vengono sentiti come persone informate sui fatti durante le indagini e poi come testimoni nel processo. Sulle navi grandi della Guardia Costiera, i testimoni vengono individuati contestualmente ai presunti scafisti, nel senso che i militari della Guardia Costiera chiedono a gruppi di passeggeri chi guidava la barca, finché non viene raggiunto un numero predefinito di persone che rendono dichiarazioni concordanti e vengono separate dagli altri.
Un ex operatore della Guardia Costiera ci ha raccontato che sulle navi c’era un’unica parola d’ordine per le indagini a bordo: “trovate un colpevole.” Questa parola d’ordine, come ci è stato raccontato da ogni soggetto intervistato – dai testimoni agli imputati, agli avvocati, agli agenti delle forze dell’ordine ed ai magistrati – si è trasformata poi nella costante domanda: “chi ha guidato la barca?” e magari “chi ha fatto parte dell’equipaggio?” Va sottolineato che alla semplicità della domanda spesso va aggiunto un livello di vaghezza nella traduzione: “chi è stato il capitano”, “chi ha preso il timone”, “chi è stato il comandante”, ecc, con conseguenze imprevedibili in un procedimento penale in corso.
Queste domande esauriscono l’elenco di quelle che vengono poste : con poche eccezioni, non viene chiesto nulla sugli organizzatori del viaggio, cioè sui vertici delle organizzazioni criminali che organizzano il traffico nei paesi di partenza. Raramente viene chiesto se è morto qualcuno in viaggio: la polizia si concentra sull’identità del presunto reo a scapito di quella delle vittime. Inoltre – come ci è stato confermato dalle forze dell’ordine – non viene chiesto se la persona che ha guidato, o chi lo ha assistito, è stata costretta a farlo: interessa individuare chi si è messo alla guida dell’imbarcazione, senza indagare oltre sul contesto e sulle circostanze nelle quali si sarebbe consumato il reato.
Quest’ultimo fatto rivela un’ulteriore strumentalizzazione dei passeggeri, che diventano meri testimoni di un presunto reato contro lo Stato ma non testimoni di quanto accaduto; sono rari i casi in cui vengono indagati altri reati, e quasi mai si tratta di reati in cui gli indagati potrebbero essere le autorità o marinai europei (un’eccezione è il caso del naufragio del 3 ottobre 2013: vedi sezione). Un’avvocata intervistata paragona la situazione ad un incidente stradale in cui varie persone sono morte e 200 persone hanno osservato la tragica vicenda: arriva la polizia e gli agenti chiedono solamente chi ha guidato le macchine, senza chiedere le dinamiche dell’incidente. Inoltre – per continuare il paragone – pongono la domanda solamente a un gruppo di 3 o 4 persone, anche se ne sono presenti 200. Per dare un esempio vero, fuori di metafora, ecco l’estratto di una sentenza relativa a uno sbarco del 2016:
“Sulla scorta delle dichiarazioni di un gruppo di 23 migranti soccorsi, vennero quindi individuati ed identificati 17 uomini di varie nazionalità, sospettati di aver contribuito al trasporto dei 1.052 migranti dalla Libia verso l’Italia. I potenziali testimoni… ed i migranti sospettati… erano a questo punto separati, in modo da evitare possibilità di contatto e pericoli di condizionamento.”
Come si vede, viene usato un “campione” di passeggeri, anche se spesso, come afferma il Giudice in un’altra sentenza, i passeggeri ascoltati “non possono certo dirsi un campione rappresentativo della popolazione viaggiante” visto il basso numero.
Un agente di Frontex, invece, sosteneva con uno studioso nel 2015, poco dopo uno sbarco, dicendo che “i migranti sono come i libri”. In ogni caso, è importante specificare che, anche se l’identificazione dei testimoni può essere effettuata da agenti di Frontex o dai militari a bordo delle navi, le dichiarazioni devono essere poi raccolte da agenti della polizia giudiziaria per essere utilizzabili in un procedimento penale. Come afferma un giudice del Tribunale di Crotone nel 2015, “il personale di Frontex, non avendo poteri di polizia giudiziaria, non avrebbe mai potuto procedere alla diretta denuncia degli imputati.” Questo è anche il motivo per il quale il codice Minniti poneva la necessità che gli agenti della polizia giudiziaria salissero a bordo delle ONG al momento dello sbarco: anche se gli agenti della Guardia Costiera o di Frontex identificano o intervistano i passeggeri, serve sempre un agente di polizia giudiziaria per raccogliere le dichiarazioni. Inoltre, affinchè queste dichiarazioni siano utilizzabili in un procedimento penale, andrebbero rilasciate in presenza di un avvocato, trattandosi di persone indagate per un reato connesso, che in questo caso è quello di ingresso irregolare in Italia.
L’incentivazione dei testimoni
I passeggeri che vengono sentiti dalla polizia giudiziaria per identificare lo scafista, spesso vengono incentivati ad indicare il capitano ed i membri dell’equipaggio tramite la promessa del rilascio di un permesso di soggiorno o di altri benefici. In un caso, un cittadino nigeriano ci ha raccontato che gli agenti della polizia gli avevano promesso che con la sua dichiarazione accusatoria si sarebbe guadagnato l’opportunità di andare a scuola e avere un letto in un centro di accoglienza. Questa persona ovviamente non sapeva che questi sono diritti spettanti ad ogni richiedente di asilo che non dipendono dalla sua collaborazione nelle indagini giudiziarie. Il capitano senegalese accusato è stato poi condannato a 2 anni 6 mesi di carcere.
In un altro caso, un cittadino marocchino ci ha spiegato che nella Questura di Palermo – utilizzata al tempo come ‘Hotspot’ – il mediatore avrebbe riferito a lui e ad uno suo compagno di viaggio che tutti i cittadini marocchini sarebbero stati rimpatriati direttamente, ma che loro, se avessero collaborato nell’individuazione dei presunti scafisti, avrebbero potuto ottenere un permesso di soggiorno e un posto in un centro di accoglienza. In questo caso l’incentivo si è basato solo parzialmente su una bugia: in realtà tutti gli altri migranti marocchini, dopo aver ricevuto un decreto di respingimento differito con l’ordine di lasciare l’Italia entro sette giorni, sono stati lasciati in strada, da dove ognuno ha continuato il proprio percorso autonomamente in Europa. Uno dei testimoni in questione è stato inserito in accoglienza e gli è stato rilasciato un permesso per motivi di giustizia. Questo permesso, però, ha una validità temporanea e non può essere convertito; trascorsi tre mesi ha presentato una domanda di protezione internazionale che ha avuto esito negativo. Adesso è presente irregolarmente sul territorio italiano.
Ci sono anche casi in cui i testimoni, anziché beneficiare di una procedura agevolata, si sono trovati trattenuti e maltrattati, come il testimone trattenuto nel CIE di Lampedusa per 70 giorni in condizione disumane nel 2013, oppure i testimoni bloccati nell’hotspot di Messina nel 2016.
Con riferimento a questa modalità di identificare i presunti colpevoli, non c’è sempre una piena sinergia tra chi svolge le indagini e i passeggeri. Un collaboratore della Guardia Costiera ci racconta di una missione di soccorso in cui, in risposta alla solita domanda di additare il capitano, ogni passeggero ha risposto che era stato lui stesso a guidare la barca. Purtroppo, in risposta a questi fortissimi momenti di solidarietà in cui l’umanità prevale, la tecnologia entra in scena.
L’utilizzo di video e fotografie
Quando non ci sono testimoni che individuano il capitano, la polizia deve far uso solo degli eventuali video e fotografie del soccorso, effettuati dal mare o dal cielo.

Dalle nostre interviste, gli avvistamenti aerei sono spesso percepiti dai capitani come il modo principale in cui le persone vengono identificate. Anche la Guardia Costiera che opera in Calabria, rivendica l’utilizzo di veivoli, anche se dalle carte giudiziarie non abbiamo visto casi in cui le foto vengono utilizzate direttamente. In alcuni casi, la presenza di mezzi aerei può anche peggiorare la situazione a bordo, a causa del fatto che chi conduce la barca si sposta dal motore per non essere ripreso troppo vicino ad esso (e quindi identificato come ‘scafista’), mettendo a rischio l’imbarcazione.
Ma il metodo più diffuso è l’utilizzo di fotografie scattate dalle navi di soccorso, in primo luogo dalle grandi navi della Guardia Costiera e della flotta militare. Come leggiamo in una sentenza del 2019, un militare dalla nave svedese Poseidon racconta che: “avevamo tante macchine fotografiche sulla nave, avevamo le macchine fotografiche proprio nei punti di entrate sulla nave, quindi prendiamo sempre tante foto dei passeggeri quando si imbarcano.” Leggiamo dello stesso metodo nel caso di una nave militare inglese, in una sentenza del Tribunale di Ragusa nel 2020: “fotografie effettuate dai militari inglesi che avevano proceduto al salvataggio, che ritraevano l’odierno imputato a poppa del gommone, vicino al motore.”
L’identificazione sulla base della nazionalità
Un fattore importante che spesso viene utilizzato rispetto alla possibile identità dello scafista è la differenza della nazionalità: gli agenti ed i militari spesso ritengono che se una barca di migranti è popolata da un’etnia ad esclusione di uno o due passeggeri, questi ultimi siano gli scafisti. Spesso l’identificazione della minoranza – e quindi del colpevole – procede sulla base del colore della pelle.
Questo vale con riferimento ad ogni combinazione di provenienza: un cittadino tunisino in una barca con predominanza di eritrei; l’unico migrante gambiano in mezzo a passeggeri bengalesi; il migrante siriano con passeggeri dell’Africa occidentale, ecc. L’atteggiamento razzista emerge soprattutto quando si tratta di cittadini libici. Come raccontato da un agente in aula a Catania nel 2015: “un gruppo di cittadini, apparentemente libici, tentava alla nostra vista di unirsi ad altri migranti di origine africana. Questi ultimi, però, li respingevano con forza, tanto da attirare l’attenzione degli operatori di Polizia.” Tanti, ovviamente, sono i motivi per i quali due gruppi di persone di nazionalità diverse potrebbero entrare in conflitto, senza che questo indichi la colpevolezza per un reato; nel caso appena citato, la procura aveva chiesto l’ergastolo per l’imputato, poi assolto.
In quasi tutti casi, la nazionalità dei testimoni è diversa di quella degli accusati. Per esempio, il caso di B. cittadino Maliano che, nel 2014, insieme al co-imputato, rappresentavano gli unici passeggeri dell’Africa occidentale in una barca composta da cittadini dell’Africa orientale. Oppure un caso del 2018, in cui due cittadini libici e uno della Guinea Bissau sono stati individuati come l’equipaggio da un gruppo di testimoni bengalesi. Oppure un procedimento del 2016, in cui fra 10 accusati e 18 passeggeri sentiti dalla polizia, non c’è neanche un testimone che accusi qualcuno della sua stessa nazionalità. In questi casi è proprio la diversità della migrazione verso Italia, e la pre-esistenza di conflitti su base linguistica, razziale e etnica, che vengono strumentalizzati dalla polizia per trovare un colpevole a bordo.

L’identificazione sulla base delle chiamate dai telefoni satellitari
Il manuale Frontex del 2017 considera il possesso e l’utilizzo di telefoni di qualsiasi tipo come indicatori per l’individuazione di uno smuggler. Fatta questa premessa, non siamo a conoscenza di condanne per favoreggiamento basate solo sull’uso di un telefono satellitare, ma solo di fermi nei confronti di migranti individuati come coloro che hanno fatto partire la chiamata, come per esempio un minore fermato a Palermo nel 2016, ed un giovane Senegalese fermato a Pozzallo nel 2018. Un altro caso è quello di E., arrestato con altri due cittadini marocchini, ed identificato come colui che ha fatto partire la chiamata ai soccorritori in lingua italiana. E’ stato condannato in quanto accusato anche di aver guidato per un certo tempo la barca.
Un ultimo caso riguarda A., profugo egiziano, fermato per aver “intrattenuto comunicazioni telefoniche con l’organizzazione” a bordo. E’ stato poi assolto dopo nove mesi di carcerazione per inconsistenza nel metodo di identificazione fotografica (nell’intervista con noi ha rivendicato il fatto di aver chiamato il soccorso e quindi di aver contribuito a salvare le vite dei passeggeri).
La paura dei capitani di essere identificati tramite il possesso del telefono satellitare può anche avere delle gravi conseguenze. Dalle intercettazioni raccolte nelle indagini sul naufragio del 3 ottobre 2013 (vedi sezione), il capitano tunisino ha buttato il suo telefono satellitare in acqua per non essere individuato come scafista: il gesto ha reso impossibile un canale di comunicazione diretta con i soccorritori, contribuendo alla morte di più di 360 persone.