6. Tribunale

  1. Processi particolari
  2. Accesso alla difesa
  3. Il procedimento penale
  4. Strategie difensive
  5. Indagini difensive

​1. Processi particolari

Molti avvocati penalisti hanno definito i procedimenti penali contro i presunti scafisti come i più difficili mai affrontati nel corso della loro carriera.

Queste difficoltà sono date soprattutto dal fatto che questi processi sono politicamente condizionati: nella caccia allo scafista, capro espiatorio a cui addossare ogni responsabilità, le garanzie processuali vengono meno e quei principi su cui dovrebbe fondarsi ogni procedimento penale vengono con leggerezza violati. Molti avvocati intervistati hanno evidenziato come l’atteggiamento estremamente punitivo dei tribunali nei confronti dei presunti scafisti è dato altresì dal fatto che gli scafisti sono stranieri, poveri, spesso senza alcuna rete sul territorio: il razzismo più becero si mischia alla consapevolezza che pochi reclameranno e porranno l’attenzione sui loro diritti violati.

La Corte di Cassazione a Roma. Fonte: Edoardo Busti.

Questi processi vedono un atteggiamento della Procura (l’accusa) molto agguerrito che chiede pene altissime, fino a arrivare, come si è già detto, all’ergastolo. Le circostanze e la complessità del caso concreto passano in secondo piano, la Procura vede il presunto scafista come un nemico e, quando ci sono delle vittime durante la traversata, lo identifica come l’unico responsabile di quei morti, morti che troveranno giustizia solo con una condanna esemplare dello scafista. Per dare un’idea di quello che spesso diventa un accanimento della Procura contro i presunti scafisti un’avvocatessa ha paragonato questi processi a una guerra che richiede una lucidità estrema perché di fronte si ha un avversario, la Procura, che non concederà niente, che chiederà il massimo possibile della pena e cercherà in tutti i modi di ottenerla.

Abbiamo riscontrato, inoltre, troppa leggerezza da parte dei Giudici nel comminare condanne a pene anche altissime basate su prove discutibili (si rimanda a modalità di assunzione delle testimonianze) o comunque insufficienti a dimostrare la colpevolezza che nell’ordinamento italiano dovrebbe essere provata “oltre ogni ragionevole dubbio”. In caso di dubbio sulla colpevolezza infatti l’imputato di regola deve essere assolto. Purtroppo, in molti di questi processi per fatti quasi sempre accaduti all’estero, sulla base di prove testimoniali inattendibili perché spesso acquisite da parte di coimputati in reati connessi non in presenza di un difensore, molti giudici condannano anche se un dubbio ragionevole sulla responsabilità a volte è innegabile.

Si tratta quindi di procedimenti complessi in cui diventa fondamentale essere difesi da un avvocato preparato che abbia tutte le armi per garantire una difesa adeguata in questa “guerra”.

​2. Accesso alla difesa

Una problematica centrale riscontrata è quella inerente all’accesso ai diritti da parte delle persone accusate del reato ex art 12 TUI, tenuto conto della peculiare condizione di difficoltà in cui versano al momento in cui viene formulata l’accusa. Dobbiamo infatti considerare, come illustrato nella precedente sezione, che i capitani vengono identificati al momento dello sbarco, o in prossimità di esso, in un Paese straniero ove, spesso, non hanno alcun riferimento affettivo e di cui non conoscono lingua, cultura, né tantomeno la legge. Una volta approdati sulle coste italiane, quindi, vengono fermati, tradotti in un carcere, il loro primo luogo di accoglienza in Italia, e si trovano così in una condizione di isolamento sotto diversi punti di vista: isolamento fisico, in quanto reclusi in uno dei tanti non-luoghi posti al margine della società, isolamento linguistico, in quanto detenuti in un Paese straniero, isolamento morale e affettivo, in quanto essendo appena giunti in Italia sono privi di una rete di sostentamento essenziale al fine di alleviare le sofferenze della detenzione e, infine, isolamento giuridico, in quanto non consapevoli dei propri diritti e spesso neanche del perché sono stati arrestati. Va, inoltre, indicato che all’inizio del periodo in carcerazione, anche prima della pandemia Covid, spesso i detenuti appena sbarcati vengono messi anche in una quarantena preventiva per sospetto malattia infettiva, peggiorando così, ulteriormente, la condizione di isolamento vissuta.

Queste diverse forme di isolamento e emarginazione cui sono sottoposte le persone accusate del reato ex art 12 TUI rappresentano degli ostacoli, a volte insormontabili, all’accesso ai propri diritti.

Il primo diritto il cui accesso è tutt’altro che scontato per un capitano è il diritto a una difesa piena ed effettiva, garantito dal sistema giuridico italiano all’articolo 24 della Costituzione.

L’ordinamento italiano prescrive nel procedimento penale l’obbligatorietà della difesa tecnica, ossia una persona accusata di un reato non può difendersi da solo, ma deve essere sempre difesa da un avvocato. Questo comporta che, qualora una persona indagata per un reato non scelga uno specifico avvocato che lo difenda, il c.d. avvocato di fiducia, lo Stato gli assegna un avvocato tra quelli iscritti in una particolare lista che sono reperibili in quel dato giorno, il c.d avvocato d’ufficio. Se l’accusato non ha le risorse economiche per coprire i costi della difesa, lo Stato può garantirle con ‘il gratuito patrocinio’, che vale sia per un avvocato d’ufficio che di fiducia iscritti in uno specifico elenco.

In linea teorica il diritto di difesa dovrebbe essere garantito parimenti da un avvocato di fiducia e da uno di ufficio, tuttavia, nella pratica il tipo di difesa, e, soprattutto, la qualità della difesa svolta, è totalmente differente. Le ragioni si possono rintracciare nel fatto che il difensore di fiducia viene scelto dall’assistito. La scelta di un avvocato è dettata dalle sue conoscenze e dall’esperienza in un particolare settore del diritto penale, dalla sua professionalità, nonché da una particolare capacità di comprensione con il cliente. Il difensore d’ufficio viene invece designato dallo Stato senza che ci sia un rapporto o conoscenza pregressa con l’assistito, impedendo che si instauri un rapporto di fiducia tra le parti, con il rischio che venga designato un avvocato con poca, se non nessuna, esperienza in processi complessi come quelli per favoreggiamento, con gravi conseguenze in merito all’effettività del diritto alla difesa dell’assistito.

Le persone accusate di essere scafisti sono, nella maggior parte dei casi, difesi da un avvocato d’ufficio. Infatti, trovandosi esclusi dal contesto italiano, gli indagati non conoscono i nomi di avvocati da nominare di fiducia, che potrebbero garantire loro una difesa piena ed effettiva data dall’esperienza maturata in processi quali quelli contro i presunti scafisti che, come verrà illustrato nei prossimi paragrafi, da un punto di vista difensivo sono già di per sé estremamente difficili. In queste circostanza, essere difesi da un difensore d’ufficio si traduce quasi sempre in non avere la possibilità di essere difesi adeguatamente. Spessissimo abbiamo riscontrato che i difensori di ufficio non si impegnano proporzionalmente alla delicatezza del caso, omettendo ogni strategia difensiva, optando per riti alternativi, che, in parte o del tutto, prevedono l’ammissione di colpevolezza del proprio assistito, senza consultarlo o metterlo a conoscenza delle conseguenze. E spesso non si avvalgono neanche dell’utilizzo di interpreti per capire i loro assistiti, facendo uso invece di una lingua veicolare spesso del tutto insufficiente (p.e. frammenti di inglese o francese); questo comporta che l’accusato non può raccontare quanto realmente accaduto al proprio avvocato e non può seguire l’andamento del procedimento penale e, quindi, fare scelte consapevoli. Abbiamo conosciuto casi del genere non solo dai racconti di ex-detenuti che hanno passato anni in carcere in modo del tutto evitabile, ma anche da avvocati più preparati che vengono nominati solo in un secondo momento quando le scelte difensive dell’avvocato precedente hanno già prodotto effetti irreversibili. Questo non è per dire che tutti i difensori d’ufficio possono essere caratterizzati in questa maniera – ci sono delle eccezioni importanti, professionisti che sono andati molto oltre – ma serve come avviso su una situazione grave che sottende una mancanza sistemica profonda.

Un altro problema che si pone è quello che per un capitano, e in generale per tutti i detenuti stranieri, la fine della pena non significa necessariamente riappropriarsi della propria libertà. Dobbiamo considerare infatti che ogni cittadino straniero per essere libero avrà sempre la necessità di essere in regola con il permesso di soggiorno, senza il quale non è ritenuto meritevole di permanere sul territorio italiano e rischia pertanto una seconda detenzione, la detenzione amministrativa nei CPR. Questo rischio può diventare realtà qualora il capitano sia assistito esclusivamente da un avvocato penalista che, avendo poche conoscenze di diritto dell’immigrazione, sottovaluta la rilevanza della regolarità del soggiorno del cittadino straniero sul territorio italiano ai fini dell’ottenimento della tanto agognata libertà. Può succedere quindi non solo che il capitano, condannato definitivamente, dopo aver scontato la pena venga tradotto in un CPR perché privo di permesso di soggiorno, ma anche che vi venga portato quello riconosciuto non colpevole del reato di cui all’art. 12 TUI e quindi assolto.

Diventa quindi essenziale che i capitani in carcere vengano seguiti oltreché da un avvocato penalista, altresì a un avvocato immigrazionista (oppure da un professionista esperto in entrambi gli ambiti) che possa informarlo della possibilità di richiedere protezione che ne impedisca l’espulsione. (vediamo la sezione su CPR).

3. Il procedimento penale

L’ordinamento italiano prevede pluralità di riti applicabili al procedimento penale, ossia prevede diverse regole procedurali per accertare la verità processuale e, più precisamente, la responsabilità penale di un soggetto. Abbiamo da un lato la procedura regolare con cui si accerta la responsabilità penale, il c.d. rito ordinario (raccolta delle prove, formazione delle prove come le testimonianze in udienza alla presenza tanto dell’accusa quanto della difesa, ascolto delle ragioni dell’accusa e della difesa, decisione), dall’altro abbiamo i c.d. procedimenti speciali (detti anche riti alternativi), applicabili a determinate condizioni e, per quelli che qui ci interessano, su richiesta dell’imputato. Nei riti alternativi le regole ordinarie di accertamento della verità processuale vengono derogate e modificate in ragione di esigenze di economia processuale.

Tra i riti c.d. speciali quelli che maggiormente vengono applicati ai procedimenti penali contro i presunti scafisti sono il giudizio abbreviato e l’applicazione della pena su richiesta delle parti (il c.d patteggiamento). Essi sono espressione di una giustizia consensuale: le parti possono dare il consenso a saltare alcune fasi processuali o modificarle per ottenere uno sconto di pena.

​Giudizio abbreviato

Il giudizio abbreviato, che può essere richiesto dall’imputato all’udienza preliminare, obbliga il giudice a decidere “allo stato degli atti”: accusa e difesa non possono produrre nuove prove a sostegno delle proprie ragioni e le prove assunte nella fase di indagini (es. sommarie informazioni testimoniali) diventano idonee ad appurare la colpevolezza. In cambio viene riconosciuto all’imputato uno sconto di un terzo della pena. In questo modo l’imputato rinuncia a un accertamento pieno della sua responsabilità per avere uno sconto di pena se ritenuto colpevole. In riferimento ai procedimenti penali contro i c.d. scafisti la scelta di questo rito implica una rinuncia sulla possibilità di ascoltare i testimoni che, come si dirà meglio in seguito, spesso sono essenziali per provare l’innocenza dell’imputato. Per evitare ciò e poter introdurre nel procedimento, ad esempio, testimonianze favorevoli di persone che erano sulla stessa barca del c.d. scafista, il difensore può richiedere il c.d. abbreviato condizionato con il quale si chiede l’acquisizione di prove di facile reperimento in termini di economia processuale, che il giudice ritenga inerenti con gli elementi già presenti agli atti ed utili alla decisione.

Nel rito abbreviato semplice, tutti i verbali delle dichiarazioni raccolte nella fase dell’indagine preliminare – ossia del capitano e dei testimoni che lo accusano – diventano le prove in deroga al principio del contraddittorio, senza cioè l’opportunità che qualcuno venga ascoltato o interrogato durante il processo.

Patteggiamento

Il patteggiamento, invece, si risolve in una rinuncia dell’imputato a contestare l’accusa: il pubblico ministero e l’avvocato difensore si accordano sulla pena da applicare e la sottopongono al giudice che la deve approvare. In questo modo l’imputato rinuncia a dimostrare la propria innocenza, si riconosce implicitamente colpevole e ottiene così una pena sicuramente più bassa di quella che gli sarebbe stata applicata se fosse stato condannato in un processo svoltosi con rito ordinario. Il patteggiamento, come l’abbreviato, visto che implica una rinuncia a importanti garanzie processuali dell’imputato, può applicarsi solo e soltanto con il consenso espresso (o in udienza o in forma scritta) dell’imputato stesso, consenso che ovviamente deve essere consapevole.

Con riferimento all’uso e all’abuso del patteggiamento abbiamo appurato gravi violazioni al diritto di difesa e al diritto di informazione che hanno subito molte persone accusate di essere scafiste.

Abbiamo conosciuto, direttamente e indirettamente, avvocati, detti “i re dei patteggiamenti”, che prospettano ai c.d. scafisti la possibilità di patteggiare in modo totalmente distorto e semplificato e in particolare evidenziando solo i vantaggi di quel rito e non gli svantaggi. In sostanza il rito del patteggiamento da questi avvocati veniva spiegato così: se firmi questo foglio e dai così il consenso, avrai una pena bassa e uscirai subito dal carcere anche se potresti avere dei problemi in futuro, se non lo firmi si farà un processo lungo durante il quale tu sicuramente starai in carcere e se verrai condannato rischi un sacco di anni. Di fronte a questa spiegazione ovviamente moltissimi imputati sceglievano di patteggiare senza sapere che quella firma significa ammettere di aver commesso il reato e senza sapere che quei problemi che avrebbero potuto avere in futuro sono rappresentati da tutte le conseguenze che una condanna comporta per uno straniero (soprattutto in ambito di protezione internazionale come si dirà in seguito). Questo non è per dire che il patteggiamento rappresenta una strategia sbagliata: anzi, è uno strumento importante nel caso che non ci sono prove, testimoni o argomenti a favore dell’imputato – ma deve essere scelto liberamente e con piena conoscenza delle conseguenze.

Importante segnalare che a partire dal 2017 è stato reintrodotto l’istituto del concordato in appello (c.d patteggiamento in appello), che abbiamo visto utilizzato dal difensore di un capitano marocchino nel tribunale di Ragusa l’anno scorso. Si tratta, in sostanza, di una procedura che consente di definire il giudizio di impugnazione in forma semplificata con la quale, prima che inizi il procedimento d’appello, le parti si mettono d’accordo nel sostenere alcuni dei motivi di appello proposti contro la sentenza di primo grado, con eventuale rinuncia agli altri motivi. Un caso tipico è quello in cui viene proposto appello dalla difesa contro una sentenza di condanna, la difesa rinuncia al motivo di appello con cui chiede l’assoluzione e si mette d’accordo con la Procura sul motivo in cui chiede una riduzione della pena, stabilendo insieme una pena e indicandola al giudice. In sostanza è un patteggiamento che si svolge in appello: rinuncio a farmi riconoscere innocente, ma verrò condannato a una pena più bassa frutto di un accordo con la Procura Generale.

​4. Strategie difensive

Nei processi contro i presunti scafisti sono diverse le strategie che un avvocato può seguire per arrivare all’assoluzione del suo assistito o comunque a un risultato pienamente favorevole per lo stesso.

​Il testimone è indagato

Il primo passo di una buona strategia difensiva è quello di verificare se ci sono stati errori procedurali commessi dalla Procura o dalla Polizia e cercare di capire se, facendo leva su questi, si può far saltare l’impianto accusatorio. Un esempio – sia importante che ironico – si ha nel caso in cui le prove dell’accusa si basano – come spesso avviene – sulle testimonianze rese al momento dello sbarco da altri passeggeri. Questi passeggeri, però, sono anche loro imputabili per il reato di ingresso illegale in Italia (il cosiddetto ingresso ‘clandestino’) e quindi devono essere considerate persone indagate di reato collegato a quello dei “presunti scafisti” e pertanto sentiti dalle forze dell’ordine con l’assistenza di un avvocato, secondo le dovute garanzie di legge. Quando vengono sentiti senza la presenza di un avvocato le loro dichiarazioni sono inutilizzabili e quindi la Procura si ritrova senza più prove per sostenere l’accusa.

Questo errore veniva commesso dalla Questura di Ragusa nel 2011 e proprio sulla base di questa violazione procedurale molti presunti scafisti venivano liberati.

Inoltre, un’avvocatessa intervistata ci ha raccontato come nel 2014 in un processo tenutosi a Siracusa è riuscita a far assolvere il proprio assistito – un ucraino accusato di aver condotto alcuni migranti in Italia in barca a vela – proprio grazie all’inutilizzabilità delle dichiarazioni dei passeggeri rese al momento dello sbarco, senza l’assistenza di un difensore.

​Non è stato lui

Altra valida strategia per la difesa di una persona innocente consiste nel sostenere che l’accusato non ha guidato o comunque non ha avuto un ruolo nella navigazione. Questa strategia si può utilizzare, soprattutto, quando le prove dell’accusa si basano, non tanto sulle testimonianze, quanto su video o foto della barca da parte di navi militari e delle forze dell’ordine, oppure su documenti e, nello specifico, sulle “liste dell’equipaggio”.

Nel caso in cui siano disponibili video o foto fatti da aerei militari che sorvolano l’imbarcazione con a bordo migranti, la prima cosa che un difensore può fare è ottenere quei video-foto, scandagliarli con attenzione per provare a vedere se l’identificazione del proprio assistito come scafista è stata frutto di un errore visivo e se c’è stato uno scambio di persona. Un’avvocatessa con grande esperienza in questi procedimenti ci ha riferito che le rare volte in cui ci sono questi video, essi possono diventare una grandissima risorsa per la difesa. Le è infatti capitato che osservando con attenzione i filmati, ad esempio, la vicinanza tra il suo assistito accusato di essere scafista e il timone fosse data da una banalissima illusione ottica: il suo assistito infatti a ben guardare si trovava dall’altra parte dell’imbarcazione.

​Scafisti come vittime della tratta di esseri umani

Una strategia difensiva che necessita di una maggiore attenzione da parte dei difensori è quella volta a far riconoscere le persone costrette a guidare le barche come vittime della tratta di esseri umani. Ci sono dei precedenti importanti per questa lettura, anche nella casistica più recente, nonostante l’argomento ancora non sia stato riconosciuto con riferimento ai cosiddetti scafisti in Italia.

Con tratta di esseri umani si intende il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’alloggio o l’accoglienza di persone, con la minaccia dell’uso o con l’uso stesso della forza o di altre forme di coercizione, con il rapimento, con la frode, con l’inganno, con l’abuso di autorità o della condizione di vulnerabilità o con l’offerta o l’accettazione di pagamenti o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra, a fini di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro o i servizi forzati, la schiavitù o pratiche simili alla schiavitù, la servitù o l’espianto di organi.

La normativa di riferimento è la Convenzione del Consiglio europeo, firmata a Varsavia nel 2005, sull’azione contro la tratta di esseri umani, ratificata dall’Italia nel 2010, che rafforza alcuni elementi del protocollo di Palermo del 2000. Come confermato nella sentenza della CEDU del 7 gennaio 2010 Rantsev c. Cipro e Russia, la tratta rientra nel divieto di schiavitù e lavoro forzato. Inoltre, gli Stati firmatari della Convenzione – tra cui l’Italia – ai sensi dell’articolo 4, sono obbligati, non solamente a svolgere i necessari accertamenti sui reati di tratta di persone, ma anche a proteggere le vittime.

Va notato che secondo una sentenza fondamentale dagli anni 80, la CEDU ha stabilito che il consenso ha solamente un “valore relativo” in questi casi: anche se qualcuno ha acconsentito formalmente al proprio sfruttamento, la decisione deve essere calata nel contesto, tenendo conto delle circostanze che lo hanno portato a prestarlo.

Il punto è importante perché vuol dire che il concetto di consenso non è semplice, né è agevole comprendere il limite tra libera scelta e costrizione. Il modello di questa discussione è la tratta ai fini di sfruttamento sessuale, un mondo in cui alcune persone non hanno nessuna idea di quello che aspetta loro, mentre altre sono del tutto coscienti. In ogni caso è pacifico che anche se qualcuno desidera prostituirsi, non vuole dire che acconsenta a subire abusi di ogni tipo. Questo è stabilito dall’art. 4 della Convenzione: la tratta si verifica anche se qualcuno ha acconsentito formalmente al proprio sfruttamento.

Gli scafisti che sono stati costretti a guidare possono senz’altro essere considerati vittime di tratta: hanno assunto l’incarico solamente in seguito alle minacce o utilizzo di violenza fisica o psicologica, inoltre, subiscono l’abuso di autorità da parte dei trafficanti oltre a vivere una situazione di particolare vulnerabilità. L’atto di guidare può essere quindi interpretato come una forma di ‘lavoro forzato’, una ampia categoria per la quale la Convenzione non fornisce una stretta definizione.

Nel contesto dei cosiddetti scafisti, questa strategia può essere perseguita quando l’atto di guidare la barca è stato commesso sotto costrizione fisica o psichica, un contesto riscontrabile principalmente nella rotta libica, in cui i migranti provenienti dall’africa occidentale sono spesso costretti a guidare. Dobbiamo notare, però, anche i casi degli skipper ucraini nella rotta adriatica che fino all’ultimo ignorano che dovranno trasportare persone e che poi vengono minacciati – o ricevono minacce contro i loro parenti – sono persone costrette a svolgere un lavoro, che è qualificabile come forzato. Per queste ragioni, sarebbe opportuno ed auspicabile che una difesa adeguata metta in rilievo che in questi casi il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, astrattamente configurabile ai sensi dell’art. 12 del TUI, è stato commesso da una vittima della tratta di esseri umani, che dovrebbe per questo godere di una tutela particolare in osservanza delle norme europee.

Sul punto, viene in rilievo una sentenza di febbraio quest’anno con cui la Corte EDU, in un caso che riguarda due migranti vietnamiti che sono stati portati nel Regno unito e poi fermati per la coltivazione di marijuana, ha stabilito che gli imputati non sarebbero dovuti essere puniti per un reato che hanno commesso in un contesto di lavoro forzato, in quanto a questa condanna si oppone la loro garanzia di essere tutelati in quanto vittime di tratta.

​Auto-favoreggiamento non è punibile

Prima di passare all’ultima strategia difensiva, lo stato di necessità, che rappresenta forse la più importante tra quelle indicate, volevamo illustrarne un’altra, non più tanto utilizzata, ma che riteniamo abbia in sé una grande potenzialità.

Molti giuristi, e in alcuni casi i Tribunali, hanno messo in discussione la circostanza che l’art. 12 possa applicarsi alla condotta di favoreggiamento posta in essere da uno dei migranti coinvolti nell’episodio di ingresso illegale a favore dei propri compagni di viaggio. Il caso più classico è quello in cui il gruppo di migranti viene abbandonato dai trafficanti nelle ultime miglia del viaggio raggiunga le coste italiane su un’imbarcazione da loro stesse condotte.

In particolare una sentenza del Tribunale di Marsala del 2004 (delle cui argomentazioni si è servita una sentenza di Cassazione del 2010) ha affermato che il reato di favoreggiamento dell’ingresso illegale presupponga da un punto di vista strutturale “una scissione di ruoli tra colui che favorisce l’ingresso illegale nello Stato e colui che viene favorito nell’ingresso medesimo”.

Da tale considerazione deriva che anche nei casi in cui in astratto il presunto scafista abbia favorito l’ingresso irregolare di altri migranti, per attribuire rilevanza penale a questa condotta sarà necessario che vi sia un comportamento distinto da quello volto a favorire il proprio ingresso nel territorio italiano, ossia:

“un’attività che va oltre quanto strettamente necessario a favorire il proprio ingresso clandestino ponendo in essere atti concretamente idonei a procurare l’ingresso di altri che non ne avrebbero avuto l’opportunità… … E’ il caso, per esempio, in cui vi sia un ruolo di organizzatore in capo a uno degli extracomunitari il quale pur volendo anch’egli effettuare un viaggio finalizzato all’ingresso clandestino nel territorio si faccia promotore del viaggio medesimo, individui altri soggetti che intendano beneficiare del trasporto e si faccia consegnare una somma di denaro per provvedere anche all’acquisto del mezzo e di quanto ulteriormente necessario per il viaggio.”

Secondo questa teoria quindi, il soggetto favoreggiatore deve essere ben distinto dal migrante favorito: il migrante irregolare non può essere punito ai sensi del reato in esame nemmeno nel caso in cui effettui in prima persona il trasporto dei migranti se la sua posizione rispetto agli altri passeggeri in null’altro differisce se non nel condurre la barca.

Queste tesi seppur datate permettono di focalizzare l’assurdità del sistema attuale e sono volte a evitare che una norma prevista per punire chi lucra, gestisce e organizza il traffico di esseri umani possa venire applicata a chi in nulla differisce dagli altri migranti se non per aver semplicemente preso in mano un timone o un telefono satellitare. L’alterità, che la norma penale, secondo questa teoria, sottintende, serve ad evitare che condotte irrilevanti (anche il semplice passare dell’acqua) possa essere letto come un favorire e quindi astrattamente punibile.

​Stato di necessità

L’ordinamento italiano prevede che una persona anche se ha commesso un determinato reato non si possa ritenere colpevole quando, in qualche modo, sia stato costretto a commetterlo. Questa costrizione può venire o da un’altra persona o da circostanze esterne, l’importante è che sia di una forza tale che se non la si assecondasse si arrecherebbe un danno grave e ingiusto a se stessi o agli altri. Sulla base di questo istituto giuridico, quindi, anche ammettendo che guidare una barca con a bordo dei migranti possa essere considerato favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ai sensi dell’articolo 12, se una persona guida per salvare sé o altri da un danno grave e ingiusto alla persona non dovrebbe essere considerato colpevole perché l’ha fatto per necessità.

Nei processi contro i presunti scafisti, lo stato di necessità (dopo il primo riconoscimento nel 2016) viene riconosciuto a chi viene forzato a guidare con minori difficoltà rispetto al passato: se la difesa riesce a provare che il migrante è stato minacciato o ha subito violenza per essere costretto alla guida, lo stato di necessità viene ritenuto esistente e l’imputato assolto. (Sulla difficoltà di provare le minacce o le violenze subite si rimanda, invece, al paragrafo “indagini difensive”).

Un’importante svolta si ha con la sentenza del Tribunale di Palermo nella persona del GIP Gigi Omar Modica del 8 settembre 2016 che per la prima volta riconosce la scriminante dello stato di necessità a due persone accusate di essere scafisti che avevano dichiarato di essere stati costretti con violenza fisica e minaccia di morte a mettersi alla guida del natante. Questa sentenza fissa dei principi fondamentali, utilissimi per predisporre una buona difesa ai presunti scafisti, che si possono riassumere nei seguenti punti:

  • la scriminante dello stato di necessità si applica anche se c’è un fondato dubbio sulla sua esistenza: nel dubbio si ragiona sempre a favore dell’imputato;
  • la stessa situazione di violenza della Libia rende attendibile quanto dichiarato dagli imputati in merito alla costrizione e alle violenze poste in essere dai libici per farli guidare;
  • le dichiarazioni rese dai testimoni vanno vagliate con cautela perché essi hanno interessi a indicare chi guida, primo tra tutti la promessa di un permesso di soggiorno per motivi di giustizia se rendono dichiarazioni accusatorie;
  • lo stesso modo in cui le forze dell’ordine assumono le testimonianze al momento dello sbarco è inadeguato: vengono ascoltate troppe poche persone e viene chiesto loro solo chi guidava e non, come si dovrebbe, anche se è stato costretto a farlo;
  • le contraddizioni nelle dichiarazioni rese dagli imputati sono spesso ricollegabili a una non piena comprensione con l’interprete.

Tuttavia, ancora grandi difficoltà ci sono nel riconoscere come fattore di costrizione il contesto del Paese di partenza. Su questo punto in particolare ci riferiamo alla rotta libica e, quindi, al contesto di violenza generalizzata e violazione dei diritti umani della Libia. La costrizione che spinge un c.d. scafista a guidare, infatti, può essere sia diretta che indiretta: può essere frutto di una violenza o una minaccia alla sua persona oppure di un contesto violento e insicuro da cui fuggire a tutti i costi, anche a costo di guidare. Appare evidente come anche in questo caso sussista lo stato di necessità, ma resistenze ancora vengono opposte da parte dei giudici forse per paura di aprire la strada a un riconoscimento generalizzato della scriminante di cui all’art. 54 c.p. nei processi contro i presunti scafisti provenienti dalla rotta libica.

Abbiamo rilevato, inoltre, come un fattore che influisce nel riconoscimento o meno dello stato di necessità nei tribunali è la nazionalità del presunto scafista. Se proviene da Paesi in guerra, o che comunque vengono identificati come paesi dai quali è comprensibile fuggire, la prospettazione dello stato di necessità viene presa in considerazione e, se provata dalla difesa, concessa. Quando invece il presunto scafista viene da Paesi in cui nel pensare comune “si sta bene” lo stato di necessità è negato a priori proprio perché banalmente la Procura, e spesso anche i giudici, si chiedono quale necessità ci fosse a imbarcarsi quando a dir loro potevano tornare nel loro Paese d’origine. E’ un atteggiamento ricorrente quando abbiamo ad esempio presunti scafisti nord africani. Questo atteggiamento riflette non solo una grande ignoranza e banalizzazione dei contesti dei Paesi d’origine, ma, con riferimento alla rotta libica, anche una sottovalutazione di quanto il contesto di partenza possa generare una necessità di partire. Sembra poi superfluo evidenziare come pregiudizi razzisti non dovrebbero influenzare decisioni così delicate in un processo penale che dovrebbe basarsi su fatti.

​5. Indagini difensive

Nei procedimenti penali contro i presunti scafisti risulta essere di fondamentale importanza l’espletamento da parte degli avvocati di indagini difensive. Come abbiamo visto approfonditamente nella precedente sezione, si tratta, infatti, di procedimenti in cui le prove della colpevolezza si basano su dichiarazioni accusatorie rese al momento dello sbarco dai passeggeri, a cui vengono poste solo alcune domande (principalmente volte a capire chi ha guidato e non se era libero di farlo), senza la presenza del difensore dell’imputato. L’avvocato difensore si trova quindi spesso di fronte a dichiarazioni accusatorie rese dai c.d. testimoni (persone informate sui fatti) che non potrà interrogare in udienza per il fatto che spesso le persone che nel corso delle indagini preliminari hanno reso dichiarazioni accusatorie diventano irreperibili sul territorio e non potranno essere ascoltate.

Questo può essere un bene per l’indagato in quanto in assenza della richiesta di incidente probatorio (ossia quando, prima del dibattimento, si sentono in qualità di testimoni veri e propri alcune persone per il fondato timore che al processo non possano testimoniare) da parte della procura in fase di indagini preliminari, ed in assenza di altri elementi a fondamento dell’accusa, lo scafista sarà assolto per insufficienza di prove. Se, invece, l’incidente probatorio viene fatto, l’avvocato deve svolgere indagini difensive e trovare lui stesso le prove dell’innocenza del proprio assistito. Queste prove sono spesso rappresentate dalle dichiarazioni di altri passeggeri che non sono state interrogate dalla polizia al momento dello sbarco, che possono testimoniare ad esempio che il presunto scafista è stato costretto a guidare.

Abbiamo incontrato avvocati che, credendo fermamente nell’innocenza dei propri assistiti, hanno posto in essere indagini difensive complesse e risultate poi essenziali per dimostrarne l’innocenza. Un caso emblematico è quello di un avvocato (nominato di ufficio) che, trovatosi a difendere più persone accusate di essere scafiste, dopo aver svolto diversi colloqui in carcere con i suoi assisti, ha come prima cosa richiesto alla Polizia la lista delle persone sbarcate nella speranza di trovare qualcuno che accettasse di testimoniare a favore dei suoi assistiti. Dopo aver ottenuto, non senza difficoltà, questa lista composta da nome cognome nazionalità dei passeggeri, sulla base di alcuni nominativi datigli dai suoi assistiti ha ricavato una trentina di nomi utili e ha iniziato a chiamare le Questure di tutta Italia per sapere in quale regione si trovassero. Dopodiché ha effettuato viaggi in Veneto, Piemonte e Toscana per incontrare queste persone e porre loro domande sulla traversata. Le interviste ai passeggeri, sentiti come potenziali testimoni della difesa nel processo, si sono svolti con l’ausilio di un interprete, mettendo a verbale quanto dichiarato e registrando le domande e le risposte date. Dopo questo lavoro, uno dei passeggeri è stato sentito in udienza quale testimone, mentre sono stati acquisiti con il consenso delle parti i verbali delle interviste degli altri. Tutti i testimoni della difesa hanno dichiarato che gli imputati sono stati costretti a guidare. Il Giudice ha riconosciuto la sussistenza della scriminante dello stato di necessità e gli imputati sono stati tutti assolti.

E’ importante dire che alcuni avvocati (anche quelli che sono soliti svolgere indagini difensive) ci hanno fatto presente che rappresentano degli ostacoli non indifferenti all’espletamento delle indagini difensive il fatto che esse possono rivelarsi molto onerose sia in termini di tempo che economicamente parlando. Quasi sempre infatti i capitani imputati, non avendo reddito, accedono al patrocinio a spese dello Stato che prevede che la parcella dell’avvocato per le attività processuali svolte venga pagata dallo Stato. I costi dell’espletamento delle indagini difensive non rientrano tra le attività retribuita dallo Stato, quindi, o l’avvocato crede nella causa e se la prende a cuore, oppure si fa due conti e, invece di optare per le meno “convenienti” indagini difensive, spingerà l’assistito a scegliere il rito del patteggiamento o quello abbreviato.

Un ulteriore ostacolo con cui l’avvocato si deve misurare in tema di indagini difensive è dato nel caso in cui dette indagini debbano effettuarsi all’estero. Questo caso si verifica ad esempio quando la persona che potrebbe rendere dichiarazioni come testimone attestanti l’innocenza del presunto scafista vive all’estero. L’ordinamento italiano prevede che qualora un difensore debba effettuare indagini difensive all’estero egli debba incaricare il Pubblico Ministero di effettuare dette indagini, attraverso un istituto chiamato rogatoria. Viene attribuito così a quella che è la controparte nel processo un potere infinito: il Pubblico Ministero può decidere se le prove che il difensore chiede di ottenere sono necessarie o meno, nonché se emerge qualche elemento accusatorio può decidere di utilizzarlo comunque – anche se quella testimonianza era chiesta dalla difesa e va contro l’interesse difensivo (cosa che non succederebbe mai se le indagini le svolgesse direttamente l’avvocato). Chiedere al Pubblico Ministero di svolgere le indagini per la difesa può rivelarsi quindi o inutile o dannoso. Per ovviare a questo paradosso un’avvocatessa con una grande esperienza in materia ci ha spiegato che quando per un caso le servivano le dichiarazioni di un testimone che risiedeva in Svezia, è andata in Svezia, ha verbalizzato le dichiarazioni del testimone e le ha presentate comunque in udienza. Questo è servito perché anche se il Giudice ha dovuto dichiararle inammissibili (perché non rispettavano l’istituto della rogatoria), prima di decretare l’inammissibilità ha dovuto leggerle e quindi è stato comunque influenzato dalle dichiarazioni medesime.

Ciò detto sull’importanza delle indagini difensive nei processi contro i presunti scafisti e sul grandissimo lavoro che svolgono alcuni avvocati, è importante segnalare che altri avvocati intervistati, anche quelli con esperienza in questo tipo di procedimenti e nominati di fiducia, hanno affermato l’impossibilità di espletare indagini difensive in questi tipi di processi. I casi emblematici che abbiamo illustrato, uniti a tanti altri, dimostrano come esse siano invece essenziali a dimostrare l’innocenza dei presunti scafisti.